Corriere della Sera, 3 febbraio 2021
Perché il generale ha rotto il patto con Suu Kyi
«Questa soluzione era inevitabile, dovremo guidare il Paese fino alle nuove elezioni». Non ha dato altre spiegazioni il generale Min Aung Hlaing, comandante dell’esercito birmano e capofila del golpe di lunedì. La dichiarazione è stata pubblicata sulla pagina Facebook di «Tatmadaw», nome ufficiale delle Forze armate del Myanmar (Birmania). In passato, il generale si sarebbe rivolto direttamente ai suoi sostenitori dal suo account personale di Facebook; coltivava i social network perché inseguiva la popolarità e aveva ambizioni presidenziali. Ma nel 2019 la sua pagina è stata oscurata perché «incitava all’odio etnico» (contro la minoranza Rohingya che secondo lui non faceva parte della nazione birmana e doveva essere cacciata con la forza).
Non ci sono notizie certe di Aung San Suu Kyi, il volto presentabile anche se solcato da molte rughe politiche, del governo deposto dai militari. La Signora sarebbe sotto sorveglianza nella sua residenza della capitale Naypyidaw «in buona salute», secondo un esponente del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia. Restano confinati in un palazzo governativo circondato dai soldati circa 400 parlamentari e ministri. Vengono segnalati gesti simbolici di disobbedienza civile: clacson suonati nella notte, pentole battute alle finestre.
Si discute molto sull’inadeguatezza politica della Premio Nobel per la Pace 1991, che ha dato copertura ai generali per la pulizia etnica contro i musulmani Rohingya. La sua tattica l’ha portata alla casella di partenza: di nuovo prigioniera, ma senza più prestigio mondiale. I politologi dicono che Suu Kyi è ormai fuori gioco e che invece di recriminare sull’occasione persa è più utile cercare di capire che cosa abbia spinto i militari al nuovo azzardo. Perché hanno distrutto il castello della convivenza con Aung San Suu Kyi che loro stessi avevano costruito nel novembre del 2010, liberandola dopo quindici anni di detenzione? Quel patto sembrava vantaggioso: in cambio della condivisione del governo nel quale mantenevano i ministeri chiave e potere di veto, i generali avevano ottenuto riconoscimento internazionale e investimenti delle multinazionali americane, giapponesi, sudcoreane, oltre a molti miliardi di Pechino spesi in infrastrutture per la Via della Seta. Il nuovo uomo forte ne avrebbe approfittato: il generale Min possiede azioni per centinaia di migliaia di dollari.
Il fatto è che Tatmadaw, l’esercito, è uno Stato dentro lo Stato, una casta nazionalista e razzista, che disprezza i civili ed è convinta di essere l’unica forza degna di reggere il Paese.
E poi c’è un particolare: Min Aung Hlaing a luglio compirà 65 anni, l’età della pensione.
In passato, un commilitone del generale disse all’agenzia Reuters che Min all’accademia era «un tipo taciturno, che sapeva solo tenere un basso profilo». Forse parlare poco gli è servito per arrivare al vertice senza allarmare gli altri ufficiali, nel 2011. E forse a fine carriera ha giocato d’anticipo, trovandosi con il golpe un altro posto di comando, politico.
Gli esperti dicono che il generale, imputato di genocidio e crimini contro l’umanità dalla Corte internazionale di giustizia per la persecuzione dei Rohingya, si sente in cuor suo anche un intellettuale. Secondo Derek Mitchell, ex ambasciatore americano in Myanmar, «Min odia personalmente Suu Kyi», che può vantarsi di essere la figlia del generale Aung San, eroe nazionale e fondatore dell’esercito. Secondo questa tesi, Min aveva sperato di diventare presidente nel 2015 e non c’era riuscito; ha costituito un partito legato all’esercito e lo ha visto umiliato dalla Lega democratica di Suu Kyi nel voto di novembre. A quel punto, Min ha convinto i colleghi a rinunciare all’opzione Suu Kyi. «Soluzione inevitabile»: l’altra sarebbe stata la pensione e magari, in futuro, il processo internazionale.