3 febbraio 2021
Biografia di Mario Draghi (articoli vari)
Daniele Manca, Corriere della Sera
«Coraggio», una parola che ricorre spesso parlando con Mario Draghi. La userà in uno dei ricordi della sua infanzia riferiti al padre. «A cavallo tra le due guerre, in Germania, mio padre vide un’iscrizione su un monumento. C’era scritto: se hai perso il denaro non hai perso niente, perché con un buon affare lo puoi recuperare; se hai perso l’onore, hai perso molto, ma con un atto eroico lo potrai riavere; ma se hai perso il coraggio, hai perso tutto».
Mario Draghi perde a breve distanza l’uno dall’altra entrambi i genitori. Ha 15 anni. Suo padre Carlo, una carriera iniziata in Banca d’Italia e proseguita in Bnl, muore nel 1963. Sarà una zia a prendersi cura di lui, di sua sorella Andreina e di suo fratello Marcello. Studia al liceo Massimiliano Massimo di Roma dai gesuiti. Nel 1970 si laurea con Federico Caffè, keynesiano, uno degli economisti più in vista in Italia, la cui scomparsa resta ancora un mistero, ma che farà in tempo ad avviare Draghi verso il Mit di Boston affinché studi con il premio Nobel Franco Modigliani. Di coraggio ne ha avuto bisogno.
E di coraggio Draghi ne avrà ancora bisogno per affrontare l’accidentato percorso che dovrà portarlo a dare un governo a questo Paese che sembra aver smarrito la strada del buon senso. Ha sperato fino in fondo che la politica riuscisse a ritrovare quella forza che è apparsa perduta in queste settimane, nelle quali si è srotolata la crisi più incomprensibile delle 67 maggioranze che hanno caratterizzato l’Italia dal Dopoguerra. Non è stato così. La telefonata dal Quirinale è infine arrivata ieri. E Mario Draghi stamattina salirà al Colle: sapeva che non poteva tirarsi indietro.
In una delle sue ultime apparizioni pubbliche, parlando agli studenti dell’Università Cattolica, nell’ottobre del 2019, si è augurato «che molti studenti di questa università decidano un giorno di mettere le loro capacità al servizio pubblico. Se deciderete di farlo, non dubito che incontrerete ostacoli notevoli, come succede a tutti i policy maker. Ci saranno errori e ritirate perché il mondo è complesso. Spero però che vi possa essere di conforto il fatto che nella storia le decisioni fondate sulla conoscenza, sul coraggio e sull’umiltà hanno sempre dimostrato la loro qualità».
Ci sono 110 giornalisti a seguirlo, 22 radio e televisioni ad ascoltare le sue parole: sono i giorni del passaggio di testimone a Christine Lagarde. Tutti sentono scandire quella parola, coraggio, associata questa volta all’umiltà. Perché del Draghi pubblico si conosce tanto, ma di quello privato molto meno. Verrà scoperto tra le file di un supermercato assieme alla moglie Serenella conosciuta a 19 anni sulle rive del Brenta, dove ha una villa la famiglia di quella ragazza che non lascerà più. Faranno il giro del mondo le foto del presidente della Banca centrale europea che come qualsiasi altro cittadino spinge il carrello assieme alla moglie, con la quale ha due figli, Federica e Giacomo, riservati quanto lui.
È lo stesso signore che nel luglio del 2012 con tre parole salverà l’euro. È il celebre «Whatever it takes», «faremo qualsiasi cosa perché l’euro resista» alla speculazione che in quei giorni sta attaccando la moneta senza uno Stato. Conosce i mercati. Sa chi sono gli avversari della moneta unica. Chi si muove sui mercati – in modo rapido, a volte incomprensibile, più spesso strategico – per trovarne le falle e poterci guadagnare. Li conosce anche perché ha lavorato per loro. Nel 2002 per pochi anni è in Goldman Sachs, una delle banche d’affari più potenti e ramificate al mondo. Quei tre anni avrebbero potuto persino costargli lo sbarco alla Bce. Ma non è così. Piuttosto ha un passaporto che gioca contro di lui, quello italiano. La Bild, il quotidiano tedesco che senza peli sulla lingua interpreta la pancia profonda della Germania, scriverà: «Draghi è quello della lira! per la memoria: questa era la moneta con un numero infinito di zeri». L’11 maggio del 2011, tuttavia, il portavoce di Angela Merkel annuncia che appoggerà la candidatura di Draghi. La porta d’ingresso per l’istituto centrale di Francoforte non è spalancata, ma è aperta.
Vent’anni prima era stato richiamato in Italia da Guido Carli. Da sei era direttore esecutivo della Banca mondiale. Ma Carli lo vuole al Tesoro, è il ministro del settimo governo Andreotti. E in Italia le tensioni economiche, finanziarie non sono esplose ma i più accorti sanno che la stagione del consociativismo ha portato il Paese su una china difficile. Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia, ha l’intuizione di far arrivare il nome a Carli.
Saranno dieci anni di scosse quelli trascorsi in via XX Settembre. La speculazione contro la lira. Le maxi manovre del governo Amato. A Palazzo Chigi passeranno Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, ma Draghi rimarrà al suo posto. Il suo far domande piuttosto che propalare false certezze si trasformerà in un mix di preparazione accademica e diplomazia che lo renderà indispensabile a qualsiasi inquilino di via XX settembre. Stefania Tamburello lo racconterà nel suo “il Governatore” mentre fa parte dei negoziati che porteranno al trattato di Maastricht. Dovrà sostenere l’uscita della lira dallo Sme. Arriveranno le grandi privatizzazioni. E sarà attaccato per aver voluto vedere gli investitori finanziari sul panfilo Britannia della regina Elisabetta. Guiderà la Banca d’Italia.
E sarà lui a essere chiamato alla guida del Financial Stability Forum dai capi di Stato del G20 per capire che cosa è accaduto nella crisi del 2008. E soprattutto a tentare di comprendere come uscirne e fare in modo che non riaccadesse. È in quegli anni che matura i convincimenti che ancora oggi fanno da fondamenta all’azione della Banca centrale europea. Che lo porteranno a ideare prima e a gestire poi quegli stimoli economici che hanno fatto da barriera a una crisi che poteva portare anche alla fine dell’Europa come l’abbiamo conosciuta in questo millennio. Il presidente Sergio Mattarella gli è stato vicino in questi anni. Chissà quante domande avrà ascoltato. E da quali di quei quesiti avrà tratto la spinta a fare la telefonata che probabilmente né il Colle avrebbe voluto fare, né Draghi avrebbe voluto ricevere.
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Francesco Manacorda, la Repubblica
Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza». Se qualcuno in queste ore è alla ricerca di un programma di governo di Mario Draghi farà bene a rileggere con attenzione il suo discorso pronunciato il 18 agosto al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. È il suo primo intervento pubblico in Italia dopo che nell’ottobre 2019 ha terminato otto anni alla presidenza della Banca centrale europea che lo hanno consacrato come uno dei protagonisti della politica – non solo monetaria – globale del nostro tempo. E all’inizio dell’anno il mondo intero è entrato nell’incubo del coronavirus. «I sussidi non bastano – avverte allora Draghi –. Ai giovani bisogna dare di più».
Si scrive Mario Draghi, del resto, e si legge situazione d’emergenza. Non è la prima volta che il professore di economia diventato banchiere centrale, formato tra i gesuiti del Collegio Massimo di Roma, le lezioni di Federico Caffè alla Sapienza e il Mit di Boston, si trova ad affrontare una situazione che appare senza via d’uscita. Anzi, per la precisione, ad essere l’uomo che quella situazione deve possibilmente risolvere, e con molti occhi puntati addosso.
Succede nel 2005, quando Draghi con già importanti esperienze alla Banca mondiale e poi come direttore generale del Tesoro, anche con Carlo Azeglio Ciampi, viene scelto per subentrare ad Antonio Fazio al vertice di una Banca d’Italia schiantata dagli scandali delle scalate bancarie benedette dal governatore uscente e dei “furbetti del quartierino”. Avviene nel luglio 2012 quando da presidente della Banca centrale europea pronuncia l’ormai famoso «Whatever it takes», «Qualsiasi cosa ci voglia», che suona come la sfida finale contro le forze della speculazione che scommettono contro l’euro e l’economia europea. Succede anche nel 2014, il famoso discorso all’incontro di Jackson Hole, in cui preannuncia l’arrivo del “bazooka”, l’arma di politica monetaria non convenzionale che si tradurrà nel Quantitative easing e nell’acquisto di titoli di Stato della zona euro che per quattro anni inietterà nell’economia europea 60 miliardi al mese per spingerla – o doparla, dicono i critici – fuori dalle secche di una crisi finanziaria che ha varcato l’Atlantico e si è trasformata in crisi economica.
Di un uomo così, che non offre nessun appiglio al “colore” di cui spesso si beano le cronache (è vero che non porta mai il cappotto, è vero che a pranzo talvolta mangia solo due barrette proteiche), basta anche una frase per cercare se non un’indicazione, almeno una suggestione. «Grazie, faccio da solo», è una delle prime frasi che pronuncia in quel 2005 quando arriva nei saloni d’onore di via Nazionale di fronte a un commesso che cerimoniosamente vuole aiutarlo a togliere la giacca. E «faccio da solo» potrebbe essere in qualche modo un motto che segna la sua indipendenza di giudizio, che si accompagna a una forte inclinazione al pragmatismo. Una frase di John Maynard Keynes che lo stesso Draghi ama ripetere recita così: «Quando i fatti cambiano, io cambio le mie idee. Lei che fa, signore?» Ma Draghi non «fa da solo», invece – assicurano i suoi collaboratori – quando c’è da mobilitare le forze in campo per raggiungere obiettivi comuni. Sono casi come quello della crisi finanziaria del 2008, quando è proprio l’iniziativa dell’allora Governatore della Banca d’Italia a spingere il G20 a un approccio assai più attivo alla crisi finanziaria che si annuncia come una catastrofe con pochi precedenti.
La catastrofe di adesso la conosciamo tutti e Draghi è stato uno dei primi a chiamarla così. In un suo intervento di quasi un anno fa, era il 25 marzo del 2020, sul Financial Times, spiega che «la pandemia del Coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche… e che già adesso è chiaro che la risposta che dovremo dare a questa crisi comporterà un significativo aumento del debito pubblico», insistendo sull’urgenza di lasciarsi dietro anni di dogmi e di contrapposizioni Nord-Sud sull’opportunità di mantenere o meno uno stretto rigore fiscale.
Da quando ha lasciato la Bce – brindisi d’addio dopo la consueta riunione del board di Francoforte del 23 ottobre scorso «chiedete a mia moglie» a chi domanda lumi sul suo futuro – Draghi è stato attento come solo un banchiere centrale può essere a misurare le parole. Mai una frase fuori posto, mai un sussurro che possa farlo apparire come favorevole a una parte o all’altra dello schieramento parlamentare. L’unica preferenza di questi mesi, magari apocrifa, è quella attribuitagli dall’esuberante presidente del Napoli Aurelio De Laurentis compagno di liceo al Massimo – per la sua squadra.
Eppure nel suo silenzio sulle vicende della politica Draghi parla eccome, con pochi e mirati interventi che disegnano chiaramente le sue convinzioni sui problemi del Paese e dell’Europa e su come questi vadano affrontati. Lo ha fatto proprio nell’intervento sul Financial Times, scrivendo che «La questione chiave non è se, bensì come lo stato debba utilizzare al meglio il suo bilancio.
La priorità non è solo fornire un reddito di base a tutti coloro che hanno perso il lavoro, ma innanzitutto tutelare i lavoratori dalla perdita del lavoro. Se non agiremo in questo senso, usciremo da questa crisi con tassi e capacità di occupazione ridotti, mentre famiglie e aziende a fatica riusciranno a rimettere in sesto i loro bilanci e a ricostruire il loro attivo netto».
Al Meeting di Rimini altre parole che oggi suonano ancora più nette e importanti: «La ricostruzione... sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo... E questo debito sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi. Ad esempio, investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca e altri impieghi. Se cioè sarà considerato “debito buono”. La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato “debito cattivo”».
Affermazioni che non necessariamente saranno popolari presso la nostra classe politica. Così come inequivocabile è l’orientamento sull’utilizzo del Recovery Fund, espresso da Draghi in un incontro del G30 a cui Repubblica ha partecipato il 13 dicembre scorso. I governi devono «progredire rispetto al sostegno ampio» della liquidità data a pioggia e di andare «verso misure più mirate focalizzate su quelle aziende che hanno bisogno di sostegno ma che ci si attende siano affidabili anche nella fase post-Covid». Basta aiuti a pioggia, insomma, che da solo suona come un programma – di governo? – rivoluzionario.
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Luca Cifoni per il Messaggero
Poco più di un anno fa, al momento di lasciare la presidenza della Bce, ai giornalisti che gli chiedevano lumi sul suo futuro Mario Draghi aveva detto di non avere idee precise. E nei mesi successivi si è tenuto scrupolosamente alla larga da qualsiasi dichiarazione che potesse suonare come una presa di posizione nel dibattito politico italiano. Il suo ingresso a Palazzo Chigi, se il Parlamento gli darà la fiducia, rappresenta in realtà il coronamento di una lunga carriera di civil servant in Italia e all’estero, iniziata negli anni 80 ai tempi della Prima Repubblica: quando da giovane e brillante economista allievo di Federico Caffè viene scelto come direttore esecutivo della Banca mondiale. Rientrato in Italia si sposta ad appena 44 anni (è nato a Roma nel 1947) sulla prestigiosa poltrona di direttore generale del Tesoro, quando ministro era Guido Carli. Da questa posizione contribuisce a gestire gli sconvolgimenti economici che negli anni Novanta hanno preceduto quelli politici: la crisi della lira del settembre 1992 e poi la stagione delle privatizzazioni di cui fu sicuramente il principale regista operativo. A Via XX Settembre rimane con i vari ministri che si sono succeduti ma il sodalizio più significativo sia sotto il profilo professionale che umano è quello con Carlo Azeglio Ciampi, poi destinato a trasferirsi al Quirinale.
L’addio a questo incarico è del 2001, anno in cui con il governo Berlusconi uscito vincitore dalle elezioni inizia una nuova fase. Draghi lascia spiegando di voler tornare all’insegnamento ma dopo pochi mesi ad Harvard accetta l’offerta della Goldman Sachs, per la quale diventerà poi vicepresidente per l’Europa.
IL RITORNO
Il ritorno a un ruolo istituzionale a fine 2005, è la risposta ad una chiamata: la Banca d’Italia ha vissuto mesi turbolenti e il suo insediamento sulla tolda di governatore al posto di Antonio Fazio ha anche una valenza affettiva: a Via Nazionale aveva lavorato prima della guerra il padre e il giovane Draghi l’aveva frequentata da giovane studioso. Durante il suo mandato l’Italia e il mondo entrano nella grande crisi del 2008, che nel 2011 porta il nostro Paese sull’orlo del baratro finanziario. In quella torrida estate è già il presidente designato della Bce e in quella veste caldeggia insieme all’uscente Trichet, con una famosa lettera, le misure di austerità poi attuate da Mario Monti alla caduta del governo Berlusconi. Quando poi la tempesta finanziaria, che ha travolto la Grecia, rischia di far cadere l’intero edificio dell’euro, SuperMario entra nella storia non solo economica con il suo celebre whatever it takes: il 26 luglio parlando a Londra convince i mercati finanziari che la Bce sarebbe intervenuta con tutte le sue forze per proteggere la moneta unica. Le tensioni iniziano gradualmente a rientrare quando Francoforte avvia davvero il suo programma di acquisto di titoli: un passaggio che evidenzia l’abilità dell’economista romano anche sul terreno della mediazione politica. Buona parte del mondo politico e finanziario tedesco non vede con favore il protagonismo della Banca centrale, ma Draghi riesce a formare un asse con Angela Merkel argomentando che l’utilizzo del bazooka per rianimare l’asfittica inflazione continentale è coerente con il mandato di Francoforte.
ANNI IMPEGNATIVI
Anche quelli successivi saranno comunque anni impegnativi: l’Europa si salva dalla dissoluzione ma fatica ad avviarsi sulla strada di una crescita stabile e credibile. Il presidente della Bce diventa sempre di più un punto di riferimento: le sue parole nelle conferenze stampa che seguono le riunioni del Consiglio direttivo vengono analizzate e soppesate dagli investitori, a caccia di qualche indizio decisivo sulle future mosse. Quando il mandato a Francoforte termina, Draghi rientra in Italia e inizia una vita lontana dai riflettori. Molti dicono che punti alla Presidenza della Repubblica, ma lui è ben attento a non lasciar trapelare neanche uno spiffero che possa alludere ad una qualche forma di impegno politico. Rompe il silenzio a fine marzo dell’anno scorso, a pandemia ormai esplosa, con un articolo sul Financial Times che invita i governi fare debito per salvare a tutti i costi l’economia. A dicembre un nuovo intervento pubblico, nella veste di membro del Gruppo dei Trenta (think tank tra istituzioni pubbliche, aziende private e mondo accademico) con l’invito a non sprecare le risorse europee in arrivo e a gestore nel modo il più possibile ordinato e lungimirante la graduale uscita dall’emergenza. Una ricetta che viene lodata in Italia anche se suscita qualche imbarazzo a Palazzo Chigi. Ora quella ricetta, sempre da Palazzo Chigi, toccherà a lui attuarla. O almeno provarci.
Luca Cifoni
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Carlo Di Foggia per Il Fatto
Subito dopo le dimissioni di Matteo Renzi, dicembre del 2016, Sergio Mattarella spiegò l’assunto più rilevante: “Le crisi politiche maturano nel tempo”. E quella del governo giallorosa, o Conte II, è iniziata ben prima di quando è iniziata. E il convitato di pietra è finalmente apparso. L’inquilino del Colle e Mario Draghi si sentono spesso. Lo avevano già fatto anche a metà gennaio. E una decina di giorni prima dell’inizio della crisi era arrivata anche la chiamata del fiorentino. Il contenuto non importa, conta quel che è accaduto dopo.
Classe ’47, liceo dai gesuiti, laurea a Roma con Federico Caffè (l’economista più a sinistra tra i più bravi della sua epoca) e specializzazione al Mit di Boston con Franco Modigliani e Robert Solow. Draghi è arrivato al Tesoro nel 1983 come consigliere dell’allora ministro Giovanni Goria (governo Craxi) e del suo maestro Guido Carli. Dopo un breve passaggio alla Banca Mondiale torna in via XX settembre nel 1991: resterà lì come direttore generale per un decennio con tutti gli esecutivi. È stato il padre ideologico della grande stagione delle privatizzazioni – non proprio felici – dei primi anni Novanta, partita simbolicamente con il discorso del 2 giugno 1992 sul panfilo Britannia, ospite di British Invisibles, il gruppo di interessi finanziari della City. A lui sono dovute le riforme del settore del credito , da quella che abolì il divieto di commistione tra banche commerciali e banche d’affari, introdotto in tutto il mondo dopo del 1929 (in Italia lo scrisse Donato Menichella, che lavorò con suo padre Carlo) al testo unico bancario e a quello finanziario. Nel 2002 lascia il ministero e diventa vice chairman a Londra di Goldman Sachs (il lavoro più pagato della sua vita), banca d’affari controparte del ministero nelle aste dei titoli di Stato (la legge sul conflitto d’interessi non esisteva). Lascerà per diventare governatore di Bankitalia nel 2005 e poi della Banca centrale europea (2011).
L’apparente doppiezza del personaggio, catalogato nel tempo come servitore dello Stato o infiltrato dei poteri forti della grande finanza internazionale, Keynesiano e fervente liberista, furono riassunti nella definizione regalata dal Financial Times: “L’enigma Draghi”.
I nei in una carriera che, a 74 anni, lo hanno consegnato come uno degli uomini più potenti d’Europa, d’Italia senz’altro – anche grazie al whatever it takes che nel luglio 2012 salvò l’euro – non sono mancati. Il più rilevante, il disastro del Montepaschi. Il 17 marzo 2008 da governatore autorizzò l’istituto guidato da Giuseppe Mussari nella sgangherata operazione di acquisto di Antonveneta, strapagandola: “Non risulta in contrasto con il principio della sana e prudente gestione”. Eppure Bankitalia sapeva che Mussari stava suicidando il Monte perché pochi mesi prima, dicembre 2006, aveva concluso con toni severi un’ispezione nella banca padovana, disastri di ogni genere.