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 2021  febbraio 02 Martedì calendario

Birmania, il generale e la Signora

È sempre stata una coesistenza che non poteva durare. Lei, la figlia del «padre della patria» che ha fatto della lotta per la democrazia in Birmania la sua missione di vita. Lui, il riservato ma ambizioso militare a capo di un esercito che si considera l’imprescindibile difensore dell’unità nazionale di un Paese con conflitti ancora attivi. Si sono annusati e hanno cercato di lavorare assieme, tra strette di mano e sorrisi, prolungando un delicato gioco delle parti in cui ognuno diceva cose che non pensava. Ma alla fine, Min Aung Hlaing ha le armi e un impero economico. E quello che non ha più è la pazienza.
La storia della Birmania dell’ultimo decennio ruota attorno ad Aung San Suu Kyi e il generale da ieri golpista. Lui prese in mano le forze armate pochi mesi dopo il rilascio di lei dagli arresti domiciliari nel 2010. Per i primi cinque anni lui ha cementato il suo potere dietro la facciata della transizione birmana verso la democrazia gestita dal suo predecessore. Min Aung Hlaing sarebbe dovuto andare in pensione poco dopo l’entrata in carica del primo governo di Suu Kyi, trionfatrice alle elezioni del novembre 2015. Ma rimase, estendendosi il mandato di cinque anni. Cioè fino al giugno di quest’anno, ma ora che ha assunto i pieni poteri per almeno un anno, nessuno gli ricorderà la scadenza.
Non ora, non quando la Birmania ha bisogno di lui. Così pensa probabilmente questo generale di 64 anni, senza distinzioni particolari fin da un’accademia militare in cui entrò al terzo tentativo. Non è il torvo dittatore Than Shwe, né il più rassicurante Thein Sein. Si era capito da tempo che Min Aung Hlaing era mosso dall’ambizione di diventare presidente. Appena Suu Kyi diventò leader del governo civile, lui iniziò a curare la sua immagine sapientemente su Facebook, facendosi vedere attivo e al servizio del Paese. Fino a che il suo profilo non fu cancellato dal social media, dopo la pulizia etnica di oltre 700 mila Rohingya fuggiti in Bangladesh. Min Aung Hlaing non è mai stato un partner facile per «la Signora», arrivata al potere circondata da aspettative folli. Lei ha cercato di tenerselo buono. Mai una critica pubblica, anzi: elogi del ruolo storico dell’esercito, difesa anche dell’indifendibile sugli orrori contro i Rohingya. Per i birmani lei rimaneva un’amata icona, «mamma Suu», simbolo della speranza di un futuro migliore. Ma all’estero, la reputazione della «Signora» ormai compromessa, con tanto di onorificenze raccolte in oltre vent’anni ritirate una ad una. Politicamente, per Min Aung Hlaing fu una mossa astuta: fu messo sotto sanzioni, ma senza l’isolamento internazionale patito dalla dittatura dagli anni Novanta. E al contempo, la rivale Suu Kyi perse la sua aura di santa.
L’immagine di una sempre più seria Suu Kyi ormai allineata a un esercito che la tenne prigioniera per 15 anni era dura da giustificare. Non era questo il lieto fine che il mondo sognava da quando lei conquistò i birmani al primo comizio a Rangoon nel 1988, alimentando proteste pro-democrazia poi schiacciate dal regime. Una donna giovane, intellettuale e occidentalizzata, che per la patria sacrifica l’amore del marito e dei due figli, contro un odioso regime che spara sulla folla: era impossibile non sperare nel miracolo del veder un giorno il premio Nobel per la Pace guidare una Birmania democratica.
Il problema è che l’esercito guidato da Min Aung Hlaing non ha mai avuto intenzione di mettersi sotto un governo civile, men che meno uno guidato dalla sua ambiziosa nemesi, che si sente quasi investita dal destino di completare l’opera del padre Aung San, assassinato quando lei aveva due anni.
Se gli stranieri erano delusi dagli scarsi risultati ottenuti dall’approccio graduale di Suu Kyi, per i militari la sua popolarità costituiva una minaccia mortale ai loro interessi economici. Forse Min Aung Hlaing temeva che, dopo un altro trionfo elettorale, Suu Kyi stavolta provasse davvero a riformare un sistema che lui non vuole cambiare. O forse era geloso di una popolarità che non potrà mai avere. Lo si capirà dalle sue prossime mosse. Ma intanto, basta finzioni: ora comanda lui.