la Repubblica, 2 febbraio 2021
7QQAN40 Il libro di Enrico Franceschini sulla fine dell’Urss
7QQAN40
La mattina del 19 agosto 1991 il telefono della mia casa di vacanza in Liguria cominciò a squillare con insistenza. Era Lucia Annunziata, allora corrispondente da Gerusalemme (io ero il capo redattore degli Esteri). La voce era concitata: «La radio militare ha appena annunciato che a Mosca è in corso un colpo di Stato. Sulle agenzie non c’è ancora la notizia». Chiamai subito Enrico Franceschini, corrispondente da Mosca, che era anch’egli in vacanza non lontano da dove ero io. «Enrico, ha chiamato Lucia, la radio militare israeliana dice che c’è un golpe a Mosca. Corriamo a Genova, c’è un volo alle 10,30. Ho già bloccato due posti. Magari riesci ad arrivare a Mosca in serata».
Mi imbarcai in tempo sull’Alitalia per Roma. Ma Enrico non arrivava. Decisi di chiedere un favore al comandante. Gli spiegai la situazione e ci fu una comprensiva risposta: annunciò un ritardo in partenza per l’attesa di un passeggero che aveva una coincidenza. Fu così che Franceschini riuscì ad arrivare a Mosca la sera stessa e raccontare l’indomani su Repubblica il clima nella «capitale assediata»: «Divisa a metà tra gli sbarramenti dei militari attorno al Cremlino e quelli del popolo, dei cittadini che vogliono difendere la democrazia, schierati attorno alla Casa Bianca sulla Moscova, sede del parlamento della Russia, la repubblica più grande dell’impero sovietico, presieduta da Boris Eltsin».
Il colpo di Stato dura poco perché opera di un maldestro gruppo di irriducibili del Pcus, il partito comunista dell’Unione Sovietica, convinti che, facendo prigioniero Mikhail Gorbaciov, avrebbero ripreso il controllo del partito e del Paese, cancellando la “perestrojka” per tornare sulla retta via del marxismo-leninismo. Ma i golpisti sbagliano clamorosamente i conti perché, anziché rinsaldare l’Urss, ne segnano l’inizio della fine, forse inevitabile due anni dopo il crollo del muro di Berlino e il progressivo distacco dei Paesi satelliti da Mosca.
Comincia così la parte più drammatica e avvincente de La fine dell’impero, l’ultimo libro di Enrico Franceschini, testimone diretto dei sei mesi che sconvolsero l’Urss attraverso un rovesciamento dei ruoli degli interpreti protagonisti: Eltsin, che da villano diventa l’eroe, e Gorbaciov, che da eroe (più per gli occidentali che per i russi in realtà) diventa villano. Perché, nell’unica vera battaglia di questo golpe quasi da operetta, la sede del parlamento della Russia, la Casa Bianca vicina al ponte sulla Moscova, dove Eltsin è asserragliato con l’ex ministro degli Esteri sovietico Eduard Shevardnadze, diventa, scrive Franceschini, «l’ultimo fortino della democrazia sovietica». Ed Eltsin, nonostante il coprifuoco imposto dai golpisti, «chiama lo stesso il popolo a raccolta, lanciando via radio un appello a tutti gli uomini di Mosca perché accorrano a difendere il parlamento». Cinquantamila persone marciano per le strade della capitale in aperta violazione dello stato di emergenza. Centocinquantamila scendono in piazza a Leningrado (oggi San Pietroburgo), la maggioranza delle autorità regionali e perfino i minatori del Kuzbass solidarizzano con «l’eroe della Casa Bianca», mentre di Gorbaciov non si hanno notizie: «È malato, vivo, prigioniero? Per tutta la giornata le congetture sulla sorte del leader sovietico si sono rincorse senza trovare una conferma... Al calar della sera, i ribelli di Boris Eltsin si interrogano, si stringono intorno ai falò, dietro le barricate, e aspettano sotto la pioggia sempre più fitta».
Quando torna a Mosca, appena quattro giorni dopo l’inizio del colpo di Stato, l’uomo che l’Occidente ha osannato nelle prime pagine e nelle copertine dei suoi giornali, accolto nelle sue capitali con tutti gli onori (ma che i russi non hanno mai amato) viene svillaneggiato come un inetto, incapace di prevenire l’azione di una masnada di nostalgici allo sbaraglio. «La libertà di Mikhail Gorbaciov – scrive Franceschini nel suo articolo del 24 agosto – è durata poco. Uscito vivo da quattro giorni di prigionia nelle mani dei golpisti, il fondatore della perestrojka si ritrova prigioniero del parlamento russo, nelle mani di Boris Eltsin e dei suoi deputati: libero di muoversi, di parlare, di tornare al Cremlino, se vuole, ma politicamente sotto custodia, sottoposto al volere e persino alle umiliazioni dei suoi interlocutori». Il resoconto quasi stenografico di quella seduta, nel resoconto di Franceschini, sembra il testo di una pièce teatrale con un finale politicamente cruento: «Eltsin accompagna Gorbaciov alla porta. Il processo è finito. Stanco, affranto, l’ideatore della perestrojka si trascina verso l’uscita».
La feroce rivalità tra il presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e il presidente della più grande, la Russia, si conclude con quello che nel linguaggio della boxe si chiamerebbe un ko tecnico. Gorbaciov non viene più riconosciuto come un leader. A fine agosto, nella seduta di quello che si chiama ancora Soviet supremo dell’Urss, il presidente del Kazakistan Nazarbaev intona il De Profundis: «In dieci giorni abbiamo chiuso la porta sul nostro passato. Ormai è evidente che l’Urss non può essere una federazione ma al massimo soltanto una confederazione di Stati indipendenti».L’Urss comincia a perdere i pezzi. Si staccano prima le Repubbliche baltiche, le ultime annesse da Stalin, poi a novembre l’Ucraina, la più grande dopo la Russia. Infine il colpo di grazia. La notte tra il 10 e l’11 dicembre nella sala stampa del vertice di Maastricht, dove viene raggiunto l’accordo per il Trattato dell’Unione europea, che sancisce l’unione monetaria e la nascita della Banca centrale, arrivano le notizie di agenzia che a Minsk i leader di Russia, Bielorussia e Ucraina hanno fondato la Comunità slava. Nasce l’Unione europea, muore l’Unione Sovietica. Gorbaciov resta leader di sé stesso rinchiuso nelle stanze del Cremlino con gli ultimi fedelissimi, il portavoce Andrej Graciov e l’ideologo della “perestrojka” Aleksandr Jakovlev. Eltsin, in un’intervista a Franceschini, il 17 dicembre, si farà generosamente garante «che Gorbaciov riceva una pensione e un trattamento che lo soddisfino».
Gorbaciov si dimette il 21 dicembre e la bandiera rossa con falce e martello viene ammainata alla Torre Spasskaja del Cremlino la notte di Natale, il 25 dicembre 1991.