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 2021  febbraio 02 Martedì calendario

Il ’68 di Franco Nones

Si può fare un Sessantotto anche con gli sci di fondo, scatenare la rivoluzione col passo alternato. Franco Nones riscrive la storia il 7 febbraio 1968, Olimpiade di Grenoble. Fino ad allora nessuno aveva osato tanto, nessuno aveva battuto scandinavi e sovietici nella loro specialità. Poi dalla Val di Fiemme arriva un ventisettenne alto 167 centimetri: strappa la medaglia d’oro ai giganti del Nord con un’impresa epica. Il nostro eroe lo incontriamo davanti al suo albergo di Cavalese: al traguardo dei primi 80 anni, compiuti ieri, è in forma smagliante. Pronto a sfogliare l’album dei ricordi di un ragazzo diventato leggenda che invece di Beatles e Rolling Stones preferiva ascoltare il suono delle lamine sulla neve. 
Eppure voleva diventare un ciclista...
«Gli sci erano necessità, la bici estate e passione. A 12 anni andai a lavorare in segheria. Coi primi soldi comprai una bici fiammante: sfidavo il treno. Accadeva questo: per lavorare andavo da Cavalese ad Ora, 20 km in discesa. Al ritorno aspettavo la partenza del regionale. Poi menavo su pedali con tutta la forza che avevo. Spesso arrivavo prima io per via delle fermate del treno. Fermate che diventarono sempre più veloci...».
Come mai?
«Il macchinista non voleva perdere: a ogni stazione urlava: “Presto, scendere veloci...”.
La gente non capiva. Ammiravo Aldo Moser, ma per seguire le sue orme sarei dovuto andare via da casa. Con lo sci era diverso. E poi vincevo. Un giorno...».
Continui.
«Mi chiamarono alle Fiamme Gialle: “Puoi unirti a noi...”. Avevo 18 anni, accettai. Voleva dire uno stipendio, materiali migliori e molto altro».
Fiducia ripagata.
«Vinsi nel 1960 il primo campionato italiano. In seguito ne conquistai altri 16, l’ultimo nel 1972 coincise col mio ritiro. Ero diventato maresciallo».
In mezzo c’è Grenoble. Come è stato possibile?
«Non certo per caso: è stata una progressione costante. Nel 1964 a Innsbruck arrivai 10°, ai Mondiali 1966 vinsi il bronzo. Certo, per norvegesi, svedesi e finlandesi ero un mistero buffo».
Cioè?
«I media scandinavi mi descrivevano come un italiano piccoletto, scuro di carnagione, capelli ricci mai avuti... Facevano della caricature: io sugli sci con un cesto di arance. Insomma, gli sembrava strano che potessi competere coi loro campioni».
Li ha sconfitti.
«Quel giorno mi alzai presto, aprii la finestra: non faceva troppo freddo: circa -7. La neve era farinosa, quella che preferivo. “È il tuo giorno”, sussurrai. E andai a preparare gli sci».
Niente skimen...
«Facevamo tutto noi: gli sci erano di legno, gli imprevisti una costante. Feci un voto: se tutto fosse filato liscio, sarei andato a Lourdes. Voto mantenuto».
Credeva nell’oro?
«Sapevo di potermi giocare il podio. Erano altri a snobbarmi: i dirigenti quella mattina andarono a vedere le prove dello sci alpino in Val d’Isere: lì arrivò la notizia del trionfo italiano nella 30 km e tornarono di corsa indietro. Quel successo fece conoscere al Paese il mio sport».
Com’è?
«Pura sofferenza. Si fatica sempre, specie in estate. Un mio allenatore diceva: “I sacrifici sono come i soldi messi in banca”. Il lavoro mi ha sempre esaltato. Mi ricordo quando incrociavo i giocatori della Grande Inter...».
Quella di Helenio Herrera?
«Sì, venivano in raduno a Cavalese perché Angelo Quarenghi era anche il medico della nostra Nazionale. Ero un loro tifoso, diventai amico di Giacinto Facchetti. Ma quello che i calciatori correvano in una settimana, io lo facevo in un giorno».
Era già fidanzato con la sua futura moglie Inger?
«C’era una simpatia. Lavorava come hostess nell’albergo svedese dove andavamo in ritiro con l’Italia. Ci siamo rivisti nel 1969, poi lei è venuta a Cavalese. Ha avuto un gran coraggio: non era semplice adattarsi alle nostre abitudini. Inger e i nostri figli sono la medaglia più bella. Grenoble è stato un momento magico della mia vita, ma loro sono la mia vita».
Grazie a questo amore ha superato anche il dolore per la perdita di Caterina, l’adorata figlia di appena 25 anni?
«Una ferita che non si richiuderà mai. Le dico solo che quando accade una cosa simile, non bisogna chiedersi “perché a me”. Non serve. Mi consola pensare che stia in un posto migliore».
Ha smesso a soli 31 anni, non aveva più motivazioni?
«Guardai al futuro: feci un accordo con la più importante ditta di sci finlandese. Giravo l’Italia: la mia faccia e la mia storia erano un bel biglietto da visita, ma la differenza la facevano i materiali. I migliori. I guadagni li ho investiti nei negozi di sport e nei due hotel. Nel primo c’è la suite 68. Nel 2026, per le Olimpiadi di Cortina e Milano, ci dormirà il sovrano di Svezia».
Conosce Re Gustavo?
«Sì, in passato sono stato suo ospite... Le sembra strano? Anni fa i media svedesi gli chiesero il nome dei tre atleti che più lo avevano entusiasmato. Rispose: “Stenmark, Borg e Nones”. Restarono stupiti: “Nones?”. E lui: “Ci ha battuti nel nostro sport. Vi sembra poco?”. Quando me l’hanno raccontato, ho chiuso gli occhi e rivisto come in un film tutti i sacrifici fatti: mi sono commosso...». Pure noi, immenso Franco Nones.