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 2021  gennaio 31 Domenica calendario

Parla il papà di Lorys

Uccidere il proprio figlio soffocandolo con le fascette idrauliche, gettando il corpo in un canalone di periferia e raggiungere la lezione del corso di cucina, ricucendo una normalità apparente per sostenere di aver portato il figlio a scuola come ogni giorno per poi asserire di non averlo trovato all’uscita. Uccidere senza movente, ma solo spinta da un impulso incontrollabile di togliere la vita alla propria creatura, al piccolo Lorys, occhioni da cerbiatto, esile e dolce, otto anni, ammazzato il 29 novembre 2014 a Santa Croce Camerina, caotica realtà in provincia di Ragusa.
La verità profonda e banale di Veronica Panarello è tutta qui. Per i giudici non c’è altro. Non c’è movente, non c’è pazzia. E questo turba il comune sentire, la pubblica coscienza che nella società della famiglia stile Mulino Bianco scolpisce e impone una mamma icona, accudente della casa e soprattutto dei figli, pargoli che mai abbandonerebbe o, ancor meno, toglierebbe loro la vita. Chi lo fa quindi deve esser per forza inghiottito dalla follia. In quasi tutte le mamme assassine sono stati riscontrati vizi di mente, che le hanno allontanate dai carceri per spedirle in quelli che venivano chiamati Ospedali psichiatrico giudiziari (Opg), in pratica i manicomi di una volta, prima di Basaglia e della riforma. Ma Veronica Panarello incarna un’altra verità. Non è pazza, è sana di mente. Lucida, concentrata prima nell’assassinio, poi nel cancellare le tracce, da quando abbandona il corpo del piccolo con i pantaloni abbassati, privo di mutandine per simulare un’aggressione sessuale. E quindi attenta, seppur grezza nel manipolare, incantare e, soprattutto, depistare. E se risulta goffa e dilettantesca è solo perché le manca una intelligenza per strutturare piani complessi. Così la Panarello oggi è detenuta, esattamente come lo è stata fino al 2019 Annamaria Franzoni, che nel 2002 uccise il piccolo Samuele nella villetta di Cogne. Ma rimane una differenza insuperabile tra questi due casi. Il marito della Franzoni, Stefano Lorenzi, in silenzio ha sempre amato l’assassina di suo figlio, tanto da avere un altro figlio nel 2003, a un anno esatto dall’infanticidio, mentre Davide Stival, coniuge della Panarello, ha imboccato la strada opposta.
La terribile verità
È l’8 dicembre 2014, nove giorni dopo il rinvenimento del corpicino, la polizia ancora non ha arrestato nessuno. I genitori di Lorys sono straziati dal dolore e chiedono giustizia. Veronica mangia a fatica. Nel pomeriggio entrambi vengono convocati in procura. A Davide vengono mostrati dei fotogrammi dei filmati delle telecamere di sorveglianza in paese. «Tua moglie ha fatto una minchiata», gli sussurra Nino Ciavola, all’epoca capo della squadra mobile di Ragusa. Le immagini la dimostrano. Dimostrano che ha fatto un giro in auto in paese ma non ha accompagnato il bambino a scuola. Davide non crede alle foto. Ciavola con garbo lo prende sottobraccio e l’accompagna in una stanza, accende il computer. A video Stival vedrà tutto il tragitto compiuto, filmato dopo filmato delle tante telecamere del paese. In particolare, invece di andare dritto verso la piazza principale e quindi la scuola, quella mattina Veronica svolta subito a sinistra per portare il secondogenito alla ludoteca. È la prova che Lorys è rimasto a casa, dove verrà ucciso. Da quel momento, la vita di Davide si fa buia, è tutto finito: sua moglie è l’assassina del piccolo Lorys, sua moglie mente a lui e a tutto il mondo.
È una scena che Nino Ciavola, all’epoca capo della squadra mobile di Ragusa, ha scolpita nella mente, come fosse ieri: «Quando Davide scopre l’altra verità, è uno choc». Questo ragazzo, taciturno, riservato, un camionista che macinava tutti i giorni centinaia di chilometri, è distrutto. La ricostruzione degli inquirenti è un pugno allo stomaco.
Quella mattina il bambino, indossando il classico grembiule della primaria, dopo essere uscito dal portone rientra subito in casa. Veronica accompagna il secondogenito alla ludoteca e alle 08.47 rientra anche lei nel palazzo. Parcheggia l’auto all’interno del garage e si intrattiene nell’appartamento fino alle 09.23. In queste poche decine di minuti, la mamma assassina prima consuma l’omicidio del bambino, quindi usa l’aspirapolvere, stende i panni e riceve una breve telefonata dal marito, durante la quale gli dice che i bambini sono a scuola, come se nulla fosse. Alle 09.23 carica Lorys esamine in auto e lo trasporta sino al muretto del canalone per farlo cadere e quindi tornare a casa. Qui raccoglie le tracce compromettenti (forbici, fascette, mutande e lo zaino di scuola) per liberarsene poco dopo, quando raggiungerà la scuola di cucina per iniziare la messinscena. Le telecamere di Santa Croce Camerina documentano tutto questo. Davide è un cencio. Esce dalla stanza e incrocia la moglie in corridoio. Lei nemmeno lo guarda, non si avvicina, non cerca comprensione e consenso, un abbraccio, un segno. Nulla, passa oltre. L’amore di Davide per la moglie si spegne. Ma andrà a trovarla in carcere per capire. «Non passerò mai sopra questa cosa – racconta ai suoi amici più intimi - non la perdonerò mai. Ma voglio sapere cosa è successo, per quale motivo ha ucciso». Ci andrà cinque volte, ma il perché non salterà mai fuori.
Le ragioni di una tragedia
«I giudici sostengono che c’è stato un impulso incontrollabile – riflette oggi l’avvocato Daniele Scrofani, difensore del papà di Lorys – Certo, l’impulso ci sarà anche stato, ma se non ti fermi mentre per quattro lunghi minuti soffochi a mani nude tuo figlio, vuol dire che la motivazione, la causale è così forte da resistere al gesto naturale, istintivo, di interromperti, di salvare chi hai messo al mondo, di togliere quella dannata fascetta al collo».
Da quel giorno tutti salgono sulle montagne russe della donna, che smentisce se stessa, corregge, accusa, finge follia. Passa un anno e Veronica cambia versione. Il 6 novembre 2015, a colloquio in carcere con il marito, fa la prima parziale ammissione, «L’ho lasciato a casa!», gli dice. Lui la fissa: «Ma sei sicura di quello che mi stai dicendo? Perché è da quasi un anno e dici sempre che l’hai accompagnato... E ora stai dicendo che l’hai lasciato a casa! Quindi hai accompagnato il bambino a scuola e sei tornata! Lorys c’era a casa?». E lei si richiude: «No, ci sono… ti ho detto che ci sono cose che mi spiego e ci sono cose che non riesco a spiegarmi!». Poi afferma che Lorys si sarebbe strangolato giocando con le fascette e il 17 novembre viene riportata a casa, nel tentativo che emerga una confessione dalle tante versioni che riempiranno i verbali fino al processo. Tutto è ripreso dalle telecamere della polizia. Lei si muove nell’appartamento per ricostruire gli attimi della tragedia, finge di ricordare dettagli improbabili: «Ho posato l’aspirapolvere, sono tornata in cucina… e ho messo la tovaglia. Nel frattempo parlavo con Lorys, avevo i porta bicchieri qui, ho preso le posate... Ho aperto, l’ho trovato piegato... Quando l’ho girato è caduto a terra e poi quando l’ho alzato ho visto le fascette con tutti gli elasticini colorati». «E tu cosa hai fatto?», gli chiede Ciavola. «Ho tentato subito di tirare ma non riuscivo, ho preso la forbice e gliel’ho tagliata».
L’ultima ferita
Prima della sentenza l’inchiesta, i processi sono segnati da una serie di tentativi di depistaggi e manomissioni della verità. «Usa tecniche avulse dal tempo – spiega Scrofani – perché sembra non sapere che le telecamere in paese vedono tutto. E così come viene smentito il suo primo racconto di non aver accompagnato il bambino a scuola, così è smentito il suo tentativo di coinvolgere il suocero nel delitto, attribuendogli l’omicidio e relegandosi una parte di complice». «Andrea Stival era salito in auto, nel sedile posteriore, ed era venuto a casa», dirà Panarello. Peccato che le telecamere di sorveglianza escludano la presenza del nonno in zona. Ma è una tesi suggestiva che crea sinergia difensiva con altri elementi. Ecco il consulente di parte che dall’analisi dei fotogrammi ipotizza una figura presente nell’auto quella mattina, seduta proprio, guarda caso, sul sedile posteriore. Ecco i tabulati telefonici che indicano un intenso traffico tra nonno Andrea e Veronica nei mesi antecedenti. «Coinvolgere il nonno paterno – osserva Scrofani – era per ferire Andrea, anche se il depistaggio peggiore si è avuto quando alcuni parenti di Veronica hanno diffuso la voce che l’omicidio del piccolo Lorys era dovuto ai traffici di suo papà che caricava sul camion merce illegale. Per Andrea, che ha perso il figlio ucciso dalla moglie, è un’accusa infame e insopportabile».
Ed è forse anche per questo che il camionista e il secondogenito hanno chiuso casa e sono emigrati. Hanno lasciato la provincia siciliana per salire al nord, in Emilia-Romagna. Sempre in un paese, ma senza le chiacchiere, le maldicenze, la curiosità dei compaesani. Qui ha incontrato la generosità di un uomo che lo ha assunto come trasportatore, ha trovato una villetta bifamiliare a lui e agli zii che lo aiutano. «Veronica mi scrive ancora e le do informazioni sul nostro secondo figlio», dice a chi gli vuol bene e sa che punta a ricostruirsi una vita. Il divorzio arriverà a giorni. E la fidanzata l’hai trovata? «No, non ancora», risponde. E sperando che arrivi, chiede di essere dimenticato.
In particolare quella posta davanti al palazzo dove abitavano dimostra che quella mattina Lorys, vestito con il suo grembiulino della primaria, non è andato a scuola. I fotogrammi non nitidi ma inequivocabili dimostrano che il piccolo torna a casa e il portone si richiude.