la Repubblica, 31 gennaio 2021
Andrea Graziosi racconta la tormentata relazione con l’Urss
«Le rievocazioni per l’anniversario di Livorno hanno riguardato principalmente la storia nazionale.
Ma il Pcd’I nasce come sezione italiana dell’Internazionale Comunista. Era cioè parte di un nuovo e potente progetto trasformativo dai caratteri parareligiosi e basato sulla violenza, che aveva il suo centro a Mosca e nel quale il gruppo dirigente del nuovo partito italiano credeva profondamente». Andrea Graziosi è storico dell’Unione Sovietica e del comunismo internazionale, insegna all’Università di Napoli e alla Scuola superiore meridionale, dal 2008 collabora con Harvard e ha appena finito di scrivere il saggio sull’uso politico della fame in Urss per una nuova edizione del Libro nero del comunismo della Harvard University Press. Il suo sguardo sulla storia del Pci muove da un’altra prospettiva.
«Non si può comprendere Togliatti sottraendolo a questo progetto gigantesco che nasce con la Rivoluzione d’Ottobre e muore negli anni Sessanta».
Quale fu il grado di compromissione di Togliatti con i crimini di Stalin?
«Lei usa un’espressione, crimini di Stalin, che è quella cui ricorse Nikita Krusciov nella storica denuncia contro il despota georgiano riferendosi al grande terrore dopo il 1936. In realtà violenze ancora maggiori erano state commesse prima, negli anni della trasformazione delle campagne. Ma ora fermiamoci ai cosiddetti “crimini”: Togliatti ne era al corrente, li riteneva in parte indispensabili ma era allo stesso tempo terrorizzato dalla possibilità di finire nel tritacarne. Anche in Spagna sa benissimo che Vittorio Vidali ammazza la gente di notte, nelle carceri di Madrid, come ci ha insegnato la bella biografia di Patrick Karlsen».
Gianni Corbi nel libro “Togliatti a Mosca” ha raccontato che, nel piccolo appartamento dell’Hotel Lux, il leader italiano può sentire di notte il tramestio della polizia segreta che entra nelle stanze vicine per le perquisizioni e le catture. E si guarda bene dall’intervenire «perché chiedono le prove solo i nemici dei soviet e della dittatura proletaria», come disse ai suoi compagni.
«Togliatti sapeva e aveva paura, come fino alla morte di Stalin ebbero paura Berja, Molotov e gli altri dirigenti della sua cerchia che pure furono i suoi complici. Ma il dato più interessante è che né Krusciov né Togliatti né larghissima parte dei comunisti italiani di quella generazione avrebbero mai messo in discussione la collettivizzazione delle campagne nella prima metà degli anni Trenta – ossia la guerra ai contadini, la dekulakizzazione, le carestie indotte – che oggi sappiamo essere stato un fenomeno di una violenza inaudita. Solo Gorbaciov negli anni Ottanta avrebbe criticato quello che per i comunisti era stato un passaggio necessario, alla base della costruzione della nuova società socialista».
Oggi sappiamo che anche la svolta di Salerno, nell’aprile del 1944, non fu una scelta autonoma di Togliatti.
«Le ricerche di Victor Zaslavsky ed Elena Aga Rossi hanno dimostrato che la scelta di partecipare al governo di Badoglio, accettando il regime monarchico, era stata dettata da Mosca. A Stalin conveniva avere buoni rapporti con gli angloamericani con cui l’anno successivo a Jalta si sarebbe spartito le zone di influenza. L’Italia era stata liberata dalle forze Usa e chi conquistava un Paese aveva il diritto di mantenerlo sotto il proprio dominio. Alla fine della guerra Stalin si sarebbe scontrato con Tito perché il leader jugoslavo voleva fare la rivoluzione in Grecia, un Paese che apparteneva all’orbita inglese: Stalin non lo tollerò».
Togliatti rappresentava per Stalin una sorta di longa manus in partibus infidelium?
«No, non la vedrei solo in questi termini, almeno relativamente a quegli anni. Rientrava nella strategia di Stalin calmare le acque in Italia: si trattava di sacrificare una pedina in cambio di un ordine europeo che il leader comunista giudicava conveniente in vista della rivoluzione mondiale».
Nel giugno del 1946 Togliatti tende la mano ai fascisti firmando l’amnistia.
«Da ministro della giustizia propone il condono delle pene per chi s’era compromesso con il regime. È un atto che non contraddice la regia staliniana. Se l’obiettivo è la pacificazione nazionale, l’amnistia è funzionale a quel progetto, con un allargamento di consenso intorno al Pci».
Quali furono le conseguenze di quell’atto sulla permanenza delle classi dirigenti fasciste nelle istituzioni repubblicane?
«Con la cancellazione delle colpe passate, l’amnistia favorì sicuramente la continuità con il fascismo, ma non fu il pezzo più importante di un processo nel quale ebbe grande responsabilità la cultura nazionale italiana. È una questione complessa che meriterebbe un focus a parte. Voglio solo ricordare che fino a qualche tempo fa nel Palazzo della Consulta era presente il busto di Gaetano Azzariti, presidente del Tribunale della razza poi divenuto presidente della Corte Costituzionale. E ancora oggi segni di questa continuità sono nel busto di Giovanni Gentile alla Treccani o nell’affresco di Sironi con il fascio che domina l’aula magna della Sapienza, cose che in Germania sarebbero impensabili».
Tornando al legame di ferro con l’Urss, pur in un rapporto di fedeltà totale a Stalin, nel 1950 Togliatti si rifiuta di tornare a Mosca come segretario del Cominform.
«Non vuole tornare a Mosca perché conosce bene “il pazzo sul trono”, come Krusciov avrebbe definito Stalin. Ma continua a credere nel progetto della rivoluzione mondiale. E nel 1951, al VII Congresso del Pci, rende omaggio alla Costituzione italiana ma contemporaneamente dà il suo sostegno alle democrazie popolari imposte con la violenza nell’Europa orientale. Togliatti si schiera contro i traditori giustiziati in Ungheria (Rajk) e Bulgaria (Kostov) e contro Slansky che sarà ucciso a Praga nel 1952: Vidali partecipa al processo come teste d’accusa».
Dopo la morte di Stalin, Togliatti non partecipa alla denuncia pubblica dei suoi crimini avviata da Krusciov. Diffida del nuovo presidente sovietico: ritiene la trasparenza un metodo criticabile.
«Finalmente muore il pazzo che aveva fatto cose orribili: ma perché bisogna raccontarle al mondo intero? È questo il senso della sua lettera a Krusciov: fai bene a sbarazzarti dello stalinismo ma non screditarci agli occhi di tutti. È molto interessante questo passaggio, perché pur nella liquidazione di Stalin entrambi credono ancora nell’assetto socioeconomico del socialismo: una volta corrette le degenerazioni, il sistema non potrà che rifiorire. Spostiamoci vent’anni più avanti a Pechino. Nel 1976 muore Mao Zedong, Den Xiaoping va al potere e fa un’operazione esattamente contraria a quella di Krusciov. Il leader cinese sa bene che Mao è come Stalin – ne ha subito la repressione, il figlio è stato buttato dalla finestra rimanendo paralizzato, il suo amico Liu Shaoqi, già presidente della Cina, è morto per i maltrattamenti subiti – ma che fa? Demolisce l’intero sistema economico socialista, lasciando nelle piazze il faccione di Mao».
Togliatti non spezza il suo legame di ferro con l’Urss neppure quando in Europa orientale cominciano le rivolte, prima a Poznan poi a Budapest.
«La sua fede nel comunismo glielo impedisce. Ai suoi occhi quei ribelli erano dei controrivoluzionari da reprimere con la violenza. Fino alla fine il socialismo è rimasto l’orizzonte del possibile».
Ma tutto questo non ha impedito al Pci di essere baluardo della democrazia in Italia. E lo fu pure sotto la guida di Togliatti, nonostante il suo peccato originale. Come spiega questo paradosso?
«Non è un paradosso. I comunisti credevano in un progetto trasformativo per rendere il mondo migliore. E quindi l’ingiustizia in Italia la vedevano. Non vedevano l’ingiustizia, certo molto più terribile, dall’altra parte dell’Europa, ma quella di casa propria sì. E hanno combattuto le loro battaglie per difendere chi ne aveva più bisogno.
Il movimento comunista ha un segno generale che tutti oggi dovrebbero riconoscere nella sua terribilità. Ma come tutti i fenomeni colossali ha molte verità parziali che sono di altro segno. E una di queste verità parziali è stato, con ovvie eccezioni, il comunismo italiano».