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 2021  gennaio 31 Domenica calendario

Lars Norén e l’infelicità vista dal basso

Osservare la realtà, e poi trascriverla, in una poesia, in un romanzo, soprattutto in un lavoro teatrale, cercando così di comprenderla meglio, entrando nelle pieghe più profonde, in quelle più dolorose e nascoste di quanto ci accade intorno. Questo è stato l’impegno umano e artistico di Lars Norén, scomparso, per complicazioni conseguenti al Covid, martedì scorso nella sua Stoccolma, dove era nato nel 1944. 
Un impegno personale, quindi, diretto, frontale nel rapporto tra lui e le cose, le persone, gli avvenimenti del suo tempo, col coraggio di porsi davanti alle mille sfaccettature dell’identità e soprattutto a quelle del pensiero comune e dell’esperienza collettiva. Basterebbe sfogliare il suo diario di 1500 pagine, steso per diversi anni a partire dal 1999, non ancora edito in Italia, ma parzialmente pubblicato in francese, per comprendere quanto acuto fosse il suo sguardo. Norén annota tutto quello che gli succede nel corso della giornata, in maniera veloce, apparentemente superficiale, tra le prove di una messa in scena di un suo testo da lui stesso curata e mille piccole azioni quotidiane. In queste rapide elencazioni, spesso asettiche, si fanno largo, però, improvvise osservazioni di gente comune incontrata per strada, di fatti, di idee o pensieri colti al volo e del tutto casuali, ma capaci di svelare molto di più di quello che mostrano.
Non a caso se le sue prime poesie vengono dedicate agli umili e agli emarginati, con l’evidente intenzione di iniziare ad indagare sul mondo partendo dal basso, dal disagio e dalla sofferenza. Per questa via l’autore incontra poi i grandi temi politici della nostra epoca, quelli più scomodi, i bocconi amari, difficili da deglutire per una società che vorrebbe descriversi come razionale, produttiva e votata alla felicità, com’è soprattutto quella del Nord Europa. 
È del 2013 un testo dedicato ad Anna Politkovskaja, la giornalista russa uccisa per le sue posizioni politiche, ma nel 2000 aveva già composto un monologo tratto da Se questo è un uomo di Primo Levi, colpito dalle affermazioni dello scrittore italiano sul rischio di dimenticare cosa era stata la deportazione nei campi di sterminio. Il suo interesse si allargherà poi ai giovani neonazisti, descritti in Freddo del 2001, a partire da un fatto di cronaca, con tre adolescenti che passano il tempo ad esercitare la meccanica della forza fino a massacrare di botte un giovane soltanto perché ha dei tratti asiatici, per portare successivamente in scena in 20 novembre la vicenda, anche questa reale, di un diciottenne entrato in un liceo per sparare su insegnati e alunni e che finisce poi col suicidarsi. 
Ma proprio perché il drammaturgo sentiva quanto, per comprendere a fondo questi temi, fosse necessaria un’analisi più ravvicinata e consapevole, Norén aveva deciso di lavorare sin dal 1999 per un lungo periodo nelle carceri minorili del suo Paese a contatto con ragazzi legati all’ultradestra, girando anche un documentario che aveva dato vita a numerose polemiche. Per questo autore non si tratta quindi di essere contro. Soprattutto non si tratta soltanto di essere contro. 
È stato questo il suo atteggiamento costante, radicato nella sua responsabilità di intellettuale, con il compito, dato a se stesso, di andare a fondo, di capire cosa potesse sconvolgere la mente dei giovani portandoli in abissi insensati di violenza. E lo scandaglio con cui entrare in dimensioni così particolari è costituito in tutti casi da una scrittura decisa, da una lingua asciutta, scabra, composta su geometrie incessanti e implacabili di dialogo. Con questo strumento il drammaturgo ci porta nelle pieghe umane più profonde di chi fa del male, di chi lo concepisce, di chi lo esercita, si tratti di un singolo delitto o dei soprusi del potere stabilito. Proprio questa linea di elaborazione linguistica rende la sua opera come una delle più incisive dei nostri anni, avvicinandolo agli altri autori teatrali scandinavi che hanno lavorato su questo fronte, come John Fosse o Per Olov Enquist. Ma non sfugge certo allo sguardo di Norén la dimensione privata, cosa che, come si è detto spesso, lo pone su quella linea feconda di scrittura e di pensiero della sua terra le cui stelle fisse sono Strindberg e Bergman. 
Basta mettere una famiglia, un nucleo primario di legami affettivi e di consuetudini, intorno a un tavolo, come fa in Autunno e inverno, per far affiorare lentamente le infinite tensioni, sopite o mal gestite, scoprendo quanto il dramma della nostra società, sostenuta da un apparente benessere, resti quello di una impossibilità di comprensione reciproca, col frantumarsi di qualunque ipotesi di felicità. Così è anche in La notte è madre del giorno del 1982, con un rimando esplicito già nel titolo ad uno scrittore a lui molto caro come Eugene O’ Neill, basato su un altro quadrilatero familiare segnato da uno strazio lancinante. Per tutti questi motivi nel nostro Paese la drammaturgia di Norén ha suscitato l’interesse dei nostri registi più attenti, da Carmelo Rifici a Marco Plini, da Arturo Cirillo a Fausto Russo Alesi, ma la vastissima produzione di questo autore offre ancora infinite possibilità ancora tutte da sondare.