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 2021  gennaio 31 Domenica calendario

Raffaello, sonetti a luci rosse

I l padre Dante non si offenderà se provo a chiudere con i sonetti di Raffaello (ne ha scritti cinque e solo tre finiti) l’«Anno Sanzio» appena concluso. Un omaggio al settecentenario dantesco appena incominciato, un ideale passaggio di testimone da un grande artista, appena finito di celebrare, al Sommo Poeta. E se Dante ha architettato le tre cantiche con piglio da paesaggista e da architetto, dal gran lago ghiacciato di Cocito («là dove più non si dismonta») al centro della candida rosa («Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore»), il giovanissimo Raffaello ha poetato un po’, e per qualche tempo. 
Lo ha fatto nei primissimi anni romani, mentre dipingeva la Disputa del Sacramento e il Parnaso nella Stanza della Segnatura, tra il 1509 e il 1510-11. In ambedue gli affreschi Dante è presente. Nella Disputa è sul lato destro, nel Parnaso sul sinistro. Qui Dante sta arrivando sulla vetta con lo sguardo intensamente rivolto verso Virgilio. L’ascesa è faticosa, ma si viene ripagati dall’essere giunti alla fama e prossimi ad Apollo e alle muse che lo circondano.
Nella seconda quartina del sonetto V ([Fe]llo pensier che in recercar t’afanni, Montpellier, Musée Fabre) Raffaello scrive: «[Dur]e fatiche e voi famosi afanni / [r]isvegliate el pensier che in otio giace, / most[r]ateli quel colle alto che face / [s]alir da’ bassi ai più sublimi scanni». Le «fatiche» e i «famosi affanni» sono esortati a eccitare l’inventiva sopita («che in otio giace») mostrandole l’alta vetta del monte Parnaso, il «cole alto», allegoria della poesia che, se eccelsa, conduce alla fama. Un’esortazione che il giovane urbinate indirizza a se stesso, come a voler cercare il massimo dell’empito creativo per l’esecuzione di un affresco rappresentativo delle arti.
Raffaello si è appena congedato da Firenze ed è da poco approdato a Roma, sua ultima e definitiva dimora. Chissà, ha forse lasciato un amore nella città toscana o ne ha appena trovato uno nella capitale dei papi. Preso da un grande fervore non solo dipinge, ma scrive. D’altro canto il padre, Giovanni Santi, pittore, non era estraneo al verseggiare e il giovane Raffaello aveva avuto, dunque, consuetudine col pennello e i colori, certo: ma anche con i versi.
Dante è ben recepito da Raffaello, al pari di Petrarca; i dotti della corte pontificia, con cui il giovane pittore cominciava a prendere dimestichezza, peraltro, erano imbevuti di petrarchismo. Può darsi che Raffaello partendo da Firenze avesse portato con sé una copia dei Rerum vulgarium fragmenta, che usa come un rimario, una sorta di prontuario poetico, uno strumento per costruire una sua «impalcatura rimica» (Bertolini/Di Teodoro). Per esempio, la sequenza di rime che accompagna il sonetto IIa (Como no(n) podde dir d’arcana dei, Oxford, Ashmolean Museum): «morii / morei / rei / lei / dei / costei / mei / heber(r)ei / fei / mi rendei / terrei / i’ farei / potei / perdei / doverei / saprei / sosterei» segue esattamente l’ordine della canzone CCVI di Petrarca (CLXXV nell’edizione del Canzoniere del 1508) (Di Teodoro 2020).
Il pensiero amoroso di Raffaello non si sublima in una Laura evocata, e il suo scrivere è filtrato da certa poesia quattrocentesca e protocinquecentesca che va dagli strambotti alle canzoni già intrise di petrarchismo di Serafino Aquilano, Angelo Galli, Giovanni Muzzarelli, Giusto de’ Conti, Antonio Tebaldeo (amico carissimo dell’Urbinate).
Per quanto qualcuno abbia tentato di agganciarli a un tono alto, tragico e teologico, i versi di Raffaello sono tutti di soggetto amoroso e carnale, un fuoco che brucia rapidamente, un’urgenza intensa, ma fuggevole, una sorta di diario intimo adolescenziale che ripiega sull’erotismo immaginativo evocato dalla parola: «L’ora sesta era che l’ocaso un sole / aveva fatto e l’altro surse in locho / ato più da far fati che parole // ma io restai pur vinto al mio gran focho / che mi tormenta, ché, dove l’on sòle / disiar di parlar, più riman fiocho» (Sonetto IIIb, Fia un pensier dolce e. rimenbra[r]se (…); London, British Museum).
Il senso dei versi è fin troppo scoperto, e certo non allusivo. Raffaello rievoca un momento speciale: erano trascorse circa sei ore dal tramonto quando si era ritrovato in un luogo appartato con la donna amata; un luogo più da far fatti che non parole. Il giovane avrebbe voluto dichiararsi o, meglio: conquistare sessualmente l’amata, ma, sopraffatto dal tormento della passione, quanto più desiderava fortemente manifestare i propri sentimenti, tanto meno riusciva a parlare e a esprimerli.
Né meno passionalità pervade i versi della prima terzina del sonetto I (Amor tu m’envesscasti co(n) doi be’ lumi, Oxford, Ashmolean Museum): «Quanto fu dolce el giogo e la catena / de’ toi candidi braci al col mio [in]vo[lti] / che sogliendomi io sento mortal pen[a]». Le braccia dell’amata al collo dell’amato sono una «dolce» catena e Raffaello prova un’immensa pena nel doversi allontanare da lei, sciogliendosi da quel giogo, un peso leggero e fortemente carnale che lo seduceva, così come i “bei lumi” i «doi beli ochi dov’io me strugo» e il volto della donna «face / da bianca neve e da rose vivace» lo avevano acceso all’inizio “invischiandolo”, imprigionandolo, e lui si era finalmente arreso, vinto da Amore «[i]o grido e dicho or che tu sei el mio signiore / dal centro al cel, più su che Jove e Marte / e ch(e) schermo no(n) val né ingenio ho arte / a schifar le tue forze e ’l tuo furore» (sonetto IV [S’] a te servir par (…) amore, Oxford, Ashmolean Museum).