Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2021
Il grattacielo cresce, lento e mutevole
«Da tutti o quasi in Italia è negata al cemento armato la possibilità di arrivare a valori monumentali», recrimina un team di ventenni laureati al Politecnico di Milano. Sembra scritto ieri, invece è stato scritto quasi cento anni fa dal Gruppo 7, pionieri del razionalismo italiano, capitanati, fra gli altri, da Giuseppe Terragni. Era il 1927: nell’opinione comune, ancora oggi, sembra non sia cambiato nulla. Ammiriamo le retrospettive su Picasso, leggiamo appassionati la Recherche di Proust, percepiamo la grandezza e la profondità di De Sica, ma l’idea che l’architettura moderna possa essere un’opera d’arte non ci passa per la testa. Basta vedere cosa è accaduto al Ponte Morandi. Al netto della gestione criminale della manutenzione di una infrastruttura di tali dimensioni e della tragedia delle vittime innocenti (non entro in tali questioni), quando crollò la pila numero 9 nessuna voce si sollevò per discutere di cosa fare per preservare ciò che era rimasto. Non sto qui a dire che bisognasse farlo, probabilmente era un’ipotesi antieconomica, ma se fosse crollata la cupola di una chiesa barocca o le volte di una cattedrale gotica si sarebbe subito attivato un dibattito e una raccolta fondi per la ricostruzione «dov’era e com’era» per non perdere la memoria di un’opera d’arte di tale importanza (immaginate se a crollare fosse stato un viadotto romano). Al Ponte Morandi non è stato riconosciuto lo status di “monumento”. Era un ponte, una strada, da cancellare e sostituire, senza troppi dubbi in merito.
Detto così potrebbe apparire frustrante, per chi si occupa di architettura, ma bisogna saper vedere l’altra faccia della medaglia. L’opinione comune reputa i monumenti qualcosa di altro da sé, di lontano, di estraneo. Sono moniti del passato, consolazioni identitarie. Spesso buoni solo per essere inzaccherati dalle deiezioni dei piccioni. Avere un’idea sacrale di Kandinskij o di Pasolini è anche un modo per depotenziarli: grandi artisti inevitabilmente legati a un passato che non ci appartiene più, luoghi dove rifugiarsi, come quando si visitano i centri storici quasi fossero più che il salotto buono di casa un parco divertimenti dove viaggiare nel tempo.
L’architettura non può permetterselo. La città è il luogo dove la complessità dei rapporti economici e sociali si fa concreta, fisica. La modernità del Novecento, la sua idea di città, ci è contemporanea, quotidiana, ed è per questo che non la viviamo come estranea da noi, come, appunto, monumentale. Persino dal punto di vista formale, “stilistico”, è cambiato ben poco da un secolo a questa parte. Tranne alcuni aggiornamenti tecnologici o di gusto, le tipologie edilizie sono ancora sostanzialmente quelle di Le Corbusier o di Gropius e persino gli azzardi “parametrici” di una Zaha Hadid sono diretta filiazione dell’Espressionismo o del Futurismo del secolo scorso. L’architettura è lenta. Per statuto, per talento, per necessità. Possiamo scegliere di vivere senza libri o senza dipinti, ma non sappiamo vivere senza case.
Una torre per uffici, una fabbrica, un cavalcavia, un centro commerciale, con la loro fastidiosa prosaicità frustrano l’idea di auroralità dell’arte, ma allo stesso tempo dimostrano quanto la disciplina sia molto più pervasiva e necessaria nella nostra vita quotidiana. La migliore architettura non è quella che più assomiglia a una scenografia teatrale, ma è quella che, costruita nel Medioevo o dieci anni fa, sa adattarsi, sa mutare, sa mettersi al servizio della collettività. Ecco perché insisto a dire che l’architettura è lenta. Non può seguire mode o istinti passeggeri. Dalla sua ideazione alla sua costruzione passano mesi, spesso anni. Non sono rari edifici progettati per un regime e inaugurati da un altro. Grattacieli messi a bilancio in momenti di espansione economica e cantierizzati in piena recessione. Perché una architettura possa sopravvivere alle temperie sociali, politiche, economiche, deve poter incorporare il più possibile qualità progettuale ed esecutiva. Incorporare tempo. È una strana contraddizione: l’oggetto più sordo, statico, inerte che ci viene in mente, deve in realtà essere capace di mutevolezza, di un continuo, costante adeguamento funzionale e simbolico. Ciò lo rende vivo, lo rende contemporaneo.
Se l’architettura è lenta anche la teoria e la prassi sulla disciplina richiedono tempo. Non si possono sollecitare taumaturgiche soluzioni immediate all’architettura. Ogni innovazione, che sia formale, tipologica o tecnologica, chiede di essere testata nel corpo vivo della città. Ma le abitudini, le tradizioni, la stessa inerzia dei materiali oppongono resistenza ad ogni intervento. Quando anche eventi catastrofici radono al suolo una città (guerre, terremoti) ciò che viene ricostruito non è mai, per davvero, nuovo. Si porta dietro un’idea dell’abitare che si è formata in migliaia di anni.
Di fronte alla pandemia da Covid-19, obbligati a restare chiusi in casa, abbiamo assistito a collegamenti televisivi con scienziati, economisti, sociologi, scrittori. Rarissimi – praticamente uno, forse due – gli architetti. Non per pudore, non per inadeguatezza. È che non si può chiedere a un urbanista come sarà la città del dopo pandemia. Non lo sa, non lo può sapere (diffidate di chi vi propugna soluzioni un tanto al chilo). Quello che sa, però, è come l’umanità s’è comportata in situazioni analoghe nella storia – pestilenze, guerre, ma anche nuove scoperte geografiche, rivoluzioni tecnologiche – e come si è agito di conseguenza. Un progettista serio non tira fuori dal cilindro il coniglio della “città post-Covid”, ma fa di questa pandemia un banco di prova dove testare l’adeguatezza di studi, teorie, pratiche sperimentali, non solo in riferimento a questa pandemia, ma all’idea di “crisi” che attraversa da sempre la convivenza nelle nostre città. Quando Stefano Boeri parla di un nuovo rapporto fra città e borghi storici, lo fa come punto apicale di un pensiero, elaborato negli anni, che sorge dalle considerazioni sui cambiamenti climatici e sulla necessità di un nuovo rapporto con il “naturale”; il modello della “città di un quarto d’ora”, che sembra l’immediata risposta (mediatica) a come vivere in una realtà postpandemica, scaturisce da un dibattito fra sociologi e urbanisti che va avanti da anni e che ha fatto la fortuna politica dell’attuale sindaco di Parigi; sperimentare nuove formule abitative, multifunzionali, capaci di accogliere nuove tipologie familiari non mononucleari, ha già degli esempi messi in pratica in Europa e studiati da più di un progettista, quali, ad esempio, Stefano Guidarini; il concetto di «rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili» non è l’idea di un guru dell’ultima ora ma uno degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, stilati nel 2015.
Quello che il Covid-19 ha fatto non è disorientare e rivoluzionare gli studi urbani, ma accelerarne le conclusioni. Metterle appunto alla prova, finalmente. Chi si occupa di territorio – dal progettista allo scienziato del suolo – sa che questa non è la prima e non sarà l’ultima crisi che dovremo affrontare. E fra cambiamenti climatici, pressioni antropiche, desertificazioni, migrazioni epocali, occorre tenere la barra dritta e non lasciarsi sopraffare dall’emotività. Festina tarde, dicevano gli antichi. Correre senza fretta. La città post-Covid è già stata delineata da prima della pandemia. È una città resiliente, sostenibile, ecologica, solidale. L’unica che possiamo permetterci pena la disfatta di fronte alla prossima crisi sanitaria ed economica. Mettiamola in atto, ci conviene.