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 2021  gennaio 31 Domenica calendario

Lavia in scena per 5 spettatori

Alla metà degli anni Sessanta, ero agli inizi della mia carriera e, nel teatrino di piazza Marsala a Genova, un Ridotto dello Stabile che ora è diventato una pizzeria, recitai davanti a un solo spettatore: era un critico. Ma alla fine arrivò l’applauso e io, felice, ringraziai. Perché, dunque, non andare ora in scena per soli 4 o 5 spettatori?». 
Gabriele Lavia sta portando avanti le prove del suo nuovo spettacolo, Le leggi della gravità (dal romanzo omonimo  Les lois de la gravité di Jean Teulé, pubblicato nel 2003), con cui andrà in scena al Teatro Flavio Vespasiano di Rieti il 13 febbraio. Un vero debutto? «No – replica l’attore – assolutamente no! Chiamiamola una prova generale destinata a pochi spettatori-ospiti, in una sala che potrebbe contenerne 550. La mia non è una trasgressione delle attuali misure di sicurezza anti-pandemia che comportano la chiusura dei teatri, piuttosto un’apertura oculata per la futura, auspicabile rinascita. Non possiamo mica recitare solo per noi stessi, no?». 
Lo spettacolo, che a maggio dovrebbe, Covid permettendo, approdare al Teatro Quirino di Roma, è prodotto dalla Compagnia Effimera. Protagonisti in scena lo stesso Lavia, anche regista della rappresentazione, e Federica Di Martino, con le musiche di Antonio Di Pofi. 

L’azione si svolge in un commissariato, dove scrivanie e armadi sono sommersi da faldoni di pratiche inevase. In una notte di cattivo tempo, una donna, Anne Lagarde, si presenta al commissario, Jilles Pontoise, per autodenunciarsi: dieci anni prima ha ucciso il coniuge violento, di cui era vittima. Il «caso» era stato archiviato come suicidio: l’uomo, infatti, si sarebbe volontariamente gettato dal balcone dell’undicesimo piano. Ma la vedova adesso, a poco più di un’ora dalla prescrizione del procedimento giudiziario, afferma di essere stata lei a spingere il marito, per liberarsi dalle sue continue vessazioni. 
«È una mitomane o una vera assassina che chiede di essere arrestata a un tutore della legge che non vuole arrestarla? – s’interroga Lavia – Di sicuro è una donna che vive un sentimento di colpevolezza, intende espiare e, in quello squallido posto di polizia, porta il dolore di un’esistenza terribile. Insomma – aggiunge – ci troviamo davanti a due leggi di gravità diverse: la gravità fisica della caduta, di nove e ottantuno metri al secondo, e quella, non misurabile, della caduta della coscienza, dentro i fallimenti delle propria vita, ovvero, la gravità dell’atto commesso». 
Interviene Di Martino: «Il mio personaggio ha compiuto un delitto d’impeto, ha agito per legittima difesa, ma è un’ingenua, ha un cuore sensibile, è incapace di odiare e non riesce più a convivere con i sensi di colpa, ne è dilaniata. Racconta, infatti, che subito dopo avere spinto il marito, ha iniziato a stare male mentalmente e fisicamente: le dolevano le mani, le braccia erano diventate rigide, non riusciva più a parlare... Certo non si può giustificare chi commette un omicidio, ma ciò che mi piace di questa donna è la sua volontà di affrontare quello che è giusto per la legge: lei si è vendicata, ma non può più convivere con il delitto di cui è rea confessa. Il disagio e il dolore sono diventati insostenibili». 
Dal romanzo originale, Lavia ne ha tratto un lungo atto unico, in cui si declina una folla di sentimenti contrastanti. «Se Anne finirà in prigione – riprende Lavia – sarà una sconfitta per il commissario, che vuole salvarla, perché lei ha sì una colpa, però non è colpevole, in quanto ha subito e sopportato per molti anni violenze inaudite su di lei e sui suoi tre figli. Tuttavia, di fronte alla determinazione dell’imputata, alla sua necessità di espiazione, il poliziotto sembra non avere scelta, deve arrestarla. Un grosso orologio campeggia in palcoscenico: rappresenta il tempo che passa. L’impasse legale della prescrizione potrebbe essere superato da un imbroglio fuori legge, modificando il verbale e scagionando definitivamente la poveretta». 
Stavolta non un femminicidio, bensì un «maschicidio»? «Sì... – ribatte Di Martino – Le donne raramente uccidono i loro compagni o i loro mariti, è un dato inconfutabile. Secondo me, dipende dal fatto che esse generano la vita e ogni uomo è figlio di una madre che molto difficilmente uccide un figlio». 
Osserva Lavia: «A mio avviso, la questione è un’altra. A livello antropologico l’uomo è fisicamente più forte e, per affermare le proprie, presunte, ragioni, non usa il cervello, usa la forza». Si infervora Di Martino: «Forza fisica sì, ma grande fragilità emotiva, impotenza mentale. I maschi non sono capaci di sopportare la perdita di una femmina che ritengono in loro possesso. Ne ammazzano una ogni due giorni... è una piaga sociale. I “maschicidi”, invece, sono casi eccezionali». 

E allora, in questo caso, quale sarà la decisione del commissario: la spedirà in galera o no? Lavia: «Al termine dello spettacolo, lo scoprirà il pubblico... una platea, al momento, molto risicata, ma noi continuiamo ostinati, altrimenti il teatro come si può salvare, non facendolo? Lo streaming non è vero teatro e mantenere i sipari abbassati è pura follia. Posso dire una cosa? Le sale teatrali sono i luoghi più sicuri, le regole vengono rispettate al massimo!». Aggiunge Di Martino: «Ci si preoccupa, giustamente, di tenere aperti i ristoranti, i parrucchieri, gli estetisti, le piste da sci... tutti hanno bisogno di lavorare e anche noi attori, insieme alle maestranze, vorremmo essere confortati da qualche certezza, come i set cinematografici e televisivi che continuano a produrre. Certo, l’emergenza è drammatica, non va presa sottogamba, e anche noi facciamo tamponi una volta a settimana, però fino a quando potremo resistere senza un futuro?». 
In questi tempi si stanno moltiplicando gli appelli per la ripartenza dello spettacolo dal vivo e si annunciano rivolte. Ma quando finalmente ripartirà la stagione, la gente avrà ancora voglia di partecipare in presenza o si sarà abituata a restare a casa, guardando la tv? Conclude Lavia: «Tutti quelli che amano il teatro, a teatro torneranno».