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 2021  gennaio 31 Domenica calendario

1QQAFZ13 Danteide, la commedia intorno alla Commedia

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Il modo migliore per cominciare un romanzo? Con il ritrovamento di un corpo, ovviamente. Il massimo sarebbe uno scheletro, magari quello del più grande poeta del mondo, fatto a pezzi e nascosto in una cassetta di abete. Così comincia Danteide di Piero Trellini. E comincia a Ravenna nel 1865, dove fervono i preparativi per il sesto centenario della nascita di Dante Alighieri. Alcuni muratori stanno facendo restauri nei pressi della tomba del poeta, sepolto lì, lontano dall’ingrata Firenze, dopo che nel 1321 una zanzara malefica gli ha tolto la vita (lo stesso destino dell’altro Campionissimo italiano: Fausto Coppi).

A un certo punto, i muratori si imbattono nella cassetta con i resti del poeta (Ossa Dantis certifica un foglio allegato). La cassetta si apre e il contenuto si sparpaglia per terra. Tra gli umarel che presidiano i lavori in corso c’è Adolfo Borgognoni, allievo di Giosue Carducci e docente di lettere all’Istituto industriale professionale cittadino, il quale allunga una mano e si zanza una tibia del poeta.
Grande è la confusione quel mattino di maggio 1865 sotto il cielo di Ravenna. Interviene il sindaco in persona, Gioacchino Rasponi, figlio del conte Giulio e marito della principessa Luisa, a sua volta figlia di Gioacchino Murat e di Carolina Bonaparte. I Rasponi sono liberali, progressisti e snob, e detestano il professor Borgognoni, focoso repubblicano. Il romanzo di Dante sterza verso il Mondo piccolo di Guareschi, le Baruffe chiozzotte di Goldoni e quelle bellanesi di Andrea Vitali. Il sindaco accusa il professore di sottrazione di reliquia. La forza pubblica cinge d’assedio casa Borgognoni, che cede e restituisce il maltolto (lo aveva nascosto nel cesso). Viene sospeso dall’insegnamento.
Adesso il romanzo cambia registro. Da commedia alla romagnola vira al giallo (anatomopatologico, scuola Patricia Cornwell) e alla storia d’avventura (scuola Indiana Jones). Perché le spoglie di Dante non erano nella tomba che, ispezionata, è risultata vuota? Facciamo un passo indietro fino all’inizio del Cinquecento. I fiorentini, con una bella faccia tosta, reclamano la restituzione delle ossa del compatriota esiliato (grande poeta, nemo propheta). Li sostiene Papa Leone X (figlio prediletto di Lorenzo il Magnifico). Sfoggiano per le loro pretese un biglietto inviato al pontefice che recita: «Io Michelagniolo Schultore il medesimo a Vostra Santità suplicho, offrendomi al divin poeta fare la Sepoltura sua chondecente e in locho onorevole in questa cictà». Allora, nottetempo, i Frati Minori di Ravenna, guardiani del santo sepolcro letterario, temendo un colpo di mano, in un’atmosfera carica di suspense (i predatori dell’arca dantesca potevano sopraggiungere da un momento all’altro), avevano trafugato i resti del poeta nascondendoli in un posto segreto. Così segreto che erano stati dimenticati.

Era di maggio, come nella struggente canzone napoletana, e le ossa del poeta tornavano a rivedere il sole e le altre stelle. Ne fu disposto un accurato esame scientifico. Gli scheletri, a prenderli per il verso giusto, sono dei gran chiacchieroni. E del Sommo Poeta, stringi stringi, non è che abbiamo mai saputo molto. Chiacchiere, supposizioni, cattiverie assortite. Giovanni Villani (il Giorgio Bocca della Firenze antica) lo aveva descritto come uno che se la tirava («presuntuoso e schifo e isdegnoso)», uno che in un talk show non avrebbe bucato lo schermo (la sua conversazione lasciava a desiderare, come spesso accade ai grandi scrittori). Dante da Maiano poi, omonimo e collega, lo aveva mandato, in una polemica in versi, a farsi un bidet e magari anche le analisi delle urine. I suoi concittadini ne sbagliavano spesso il cognome: Alaghieri, de Adegheriis, Allegri (come il mister). Anche lo scheletro di Dante non parlò benissimo di lui. Disse che, forse, arrivava a sfiorare il metro e sessantasette. Che, odontoiatricamente parlando, la sua bocca era un mezzo disastro. Gli incisivi del lato destro erano caduti tutti, i dirimpettai addirittura mai spuntati. Che non era stato un mangione. Che aveva sofferto di artrite cronica anchilosante. Che aveva il nasone alla Bartali.
Ma erano quisquilie. I periti puntavano al bersaglio grosso: la testa del poeta. Grazie al cranio potevano stabilire il peso del cervello dantesco, lombrosianamente convinti che «il cranio degli uomini superiori comunemente è più grande e più bello di quello degli uomini di mediocre intelligenza». La gara che conta davvero non è a chi ce l’ha più lungo. Il cervello di Dante fu pesato: 1.649 grammi. Nella classifica mondiale superava campioni come Guillaume Dupuytren (un chilo e 437), il chirurgo che curò le emorroidi di Napoleone. «Ciò che era custodito lì dentro, insomma, era un super cervello». Uguale a quello di Petrarca (l’eterno derby della poesia italiana stavolta si chiudeva in pareggio), superiore a quello di Foscolo (chissà quanto pesava il cervello di Montale?).


L’autopsia è terminata e con essa finisce il «prepilogo» della Danteide, che è in realtà un sequel. Prima di procedere bisogna spendere due parole su Piero Trellini, il più grande fantasista della letteratura italiana contemporanea. È un cinquantenne romano, autore finora di un libro unico e formidabile: La partita, la famosa sfida Italia-Brasile (3 a 2) da lui ricostruita come certi maniaci ricostruiscono fino all’ultimo bottone delle divise, fino all’ultima goccia di sangue, la battaglia di Waterloo (con Falcao come Napoleone e Paolo Rossi come Duca di Wellington). D’ora in poi, Trellini sarà anche l’autore di un altro libro unico e formidabile: la Danteide.
Tutto cominciò quando la casa editrice Bompiani, in previsione dei settecento anni dalla morte di Dante, commissionò a Trellini un libro sul poeta. Fai tu, gli dissero, quello che ti pare: un saggio, una biografia. Trellini non è un dantista laureato (ma se ne innamorò alla follia da piccolo, galeotte le incisioni di Gustavo Doré) e non frequenta il giro buono dei letterati (credo che proprio non senta il desiderio di farne parte, che non si riconosca nelle loro trame nascoste). Insomma, è la persona giusta per scrivere il super-romanzo dantesco che non era mai stato scritto.
C’era da scriverlo, però. Come? Bisognava cambiare punto di vista. Trellini lo spiegò ai committenti: «Dante per noi è la Commedia. E questa ha raccolto tutto ciò che degli altri il sommo ha letto, visto o ascoltato. Dante dunque è fatto anche delle presenze che hanno attraversato lo spazio della sua vita e sono confluite nei suoi versi». Come fecero i registi neorealisti con gli attori, Dante prese i personaggi del suo poema dalla strada. Trellini scrivendo la Danteide non guarderà Dante, ma guarderà ciò che aveva guardato lui, una rivoluzione copernicana. «Voglio intraprendere un viaggio nella testa del poeta. Dante non fece la storia, ma vide la storia farsi. Fu come un James Stewart hitchcockiano, un uomo qualunque in un contesto straordinario: immerso dentro una realtà nella quale si trova a incrociare (stavolta come un Forrest Gump) le vite degli altri: il filo della sua esistenza con quello dell’arcivescovo Ruggieri, di Bonifacio VIII, delle famiglie di Paolo, Francesca, Ugolino e compagnia bella. Perché tutti sono collegati e, spesso, mezzi parenti».
Così Trellini concluse la sua dichiarazione di intenti agli editor Bompiani. Che risposero: vai! E il turbocervello da 1.649 grammi di Dante riprese a girare come i cilindri di una fuoriserie.
Nella Danteide ogni riferimento è puramente dantesco: persone, circostanze e avvenimenti sono tutti rigorosamente provenienti dalla Commedia. Trellini usa esclusivamente ricambi originali. Tecnicamente il libro è uno spin-off, ma come se lo avesse scritto Dante in persona. Le cose sono poi complicate dal tipo di scrittore che è Trellini. Una volta ha detto: «Dentro di me, purtroppo, scorrono digressioni anziché piastrine». Marcello Marchesi lo avrebbe ribattezzato il Dottor Divago. Nella Danteide è finito di tutto: la ventiquattrore di Vincent Vega (Pulp Fiction), il tappeto di Drugo Lebowski, la slitta di Citizen Kane, il diamante di Rose DeWitt Bukater (Titanic), la busta di Marion Crane (Psycho), Wim Wenders, gli Squallor, George Lucas, Rino Gaetano, il McGuffin hitchcockiano, Bob Dylan, Spielberg, Frankenstein, il Graal, il Rat Pack, Lewis Carroll, vari claim pubblicitari, l’acido prussico, i principi elementari di defecazione medievale... La Danteide è un incrocio tra il software di Dante e il software di Trellini. Ci sono (è una mia ferma convinzione) tre capolavori della letteratura mondiale che sono anche capolavori dell’arte del pettegolezzo: la Recherche di Proust, Preghiere esaudite di Capote e, last but not least, la Commedia. Il poema dantesco fu anche il rotocalco gossip dell’epoca (una «Novella 2000» medievale o, meglio ancora, per il ruolo preponderante che vi hanno le case regnanti, una «¡Hola!» d’antan). Trellini lo sa e taglia e cuce in allegria pure lui.
Guardate come annuncia un capitolo: «Lui è guelfo, lei ghibellina. La loro è la madre di tutte le storie d’amore. Sì, anche quella di Romeo e Giulietta». E guardate, ancora, l’avventura (brancaleonesca?) di Luigi VII, re di Francia, che va alle Crociate con l’imperatore sacro romano Federico Barbarossa, ma, innamorato pazzo della moglie Eleonora d’Aquitania, viene «distratto dalle itineranti spregiudicatezze della consorte intenta a beffarsi del patto di fedeltà coniugale persino con lo zio Raimondo I di Antiochia».
Trellini racconta la storia di Gemma Donati, la moglie di Dante, come una puntata di Desperate Housewives. Le mogli dei grandi scrittori, le vedove in particolare, sono di solito insopportabili. Tale sarebbe stata anche Gemma Donati, almeno a dar retta a Giovanni Boccaccio che «mise nero su bianco un pugno di voci pappagallesche raccolte nell’aria e la ridusse per l’eternità a una moglie borbottona e indiscreta», una bisbetica indomata. Trellini si immedesima. Ricorda l’umiliazione della signora Alighieri costretta a bussare alle porte del comune di Firenze per elemosinare il sussidio economico (il ristoro?) spettante alle vedove degli esiliati. Non deve essere stato facile essere la moglie di Dante, uno che «aveva cantato per tutta la vita le beltà di un’altra», quella Beatrice che sarebbe diventata «la prima donna a lasciare una traccia indelebile nella nascente storia della letteratura italiana». Non deve essere stato facile vedere Antonia, la figlia di Gemma e di Dante, prendere i voti scegliendo di chiamarsi Suor Beatrice.

Ci sono capitoli che sembrano Il Trono di Spade. Un incipit: «Almanaccando sugli influssi dei pianeti, Adeleita degli Alberti di Mangona consegnava le sue profezie a versi tanto impenetrabili da poter essere facilmente declinati in suo favore nell’interpretazione postuma dei fatti predetti. Quando una notte, però, ebbe l’ardire di puntare gli occhi sul futuro dei suoi figli, nulla proferì e non fu più vista sorridere». Nel suo viaggio nella Commedia Trellini a volte piange. Succede per Paolo e Francesca, «i più bei versi che l’uomo scrisse giammai». Trellini piange perché ogni grande scrittore racconta la fine di un (del) mondo (Proust, Nabokov, Tomasi di Lampedusa) e la Commedia è la fine del mondo basato sul sistema binario Papa-Imperatore, come nelle carte dei tarocchi.
Questo lo sfondo grandioso, ma personalmente Dante visse in un condominio (sposò la figlia dei vicini di casa). Comedìa, scrisse lo stesso Dante, significa canto del villaggio. Come Spoon River, come i Dubliners. Ma il villaggio è globale.
C’è un’arcana armonia (beffarda e commovente assieme) in questo libro (e, forse, nella storia del mondo). Sentite questa: «Nel 1613 una Cecilia Traversari, figlia del notaio Giovan Antonio, andò in sposa a un Bartolomeo Portinari di Firenze. Erano rispettivamente i discendenti delle famiglie di Francesca da Rimini e di Beatrice Portinari, le due icone dell’amore dantesco». Tutto si tiene nella Danteide che è un monumento «chondecente e in locho onorevole» all’Altissimo Poeta, come quello che sognava Michelangelo Buonarroti.