La Lettura, 31 gennaio 2021
1QQAFA10 Sui 60 anni di "Ferito a morte"
1QQAFA10
Cominciamo col dire che Ferito a morte va letto d’un fiato, in uno di quei meravigliosi pomeriggi trascorsi senza fare altro che leggere, magari all’aperto, magari in giugno, possibilmente ad alta voce, possibilmente imitando un leggero accento napoletano (anche male, non fa niente), e che, soprattutto, appena finito l’ultimo capitolo va subito riletto il primo. L’ideale sarebbe rileggere tutto il libro, di slancio, e poi rileggerlo ancora, per un totale di tre (3) volte consecutive; ma può bastare anche rileggere una volta il primo capitolo: l’importante è che il libro non venga chiuso e riposto dopo l’ultima pagina, come a sbarazzarsene, perché di Ferito a morte non ci si può sbarazzare. È una specie di boomerang: anche se tu volessi scagliarlo con tutte le tue forze il più lontano possibile (per la sua troppa bellezza, mettiamo, per non sentirti inferiore), esso profitterebbe della curvatura dello spazio-tempo e ti ritornerebbe addosso, prendendoti alle spalle, di sorpresa. Perciò, tanto vale rassegnarsi: rileggerlo ogni tanto, e ogni volta rileggersi il primo capitolo appena finito l’ultimo. Io ve l’ho detto, poi fate come vi pare.
La circolarità (quella dello spazio-tempo, certo, ma anche quella della vicenda narrata, e della scrittura che la narra) è la caratteristica più entusiasmante di questo romanzo, composto in un arco di tempo piuttosto esteso e pubblicato abbastanza tardi, nel 1961, quando Raffaele La Capria aveva 39 anni. Concepito, cioè, cominciato e in buona parte scritto in un mondo diverso da quello che poi lo ha accolto; un mondo in cui non esistevano ancora il presidente Kennedy, l’aeroporto di Fiumicino, l’indipendenza di molti Stati africani, Amnesty International, il laser, La dolce vita, Nel blu dipinto di blu e tutte le altre accelerazioni che lo hanno preso a bordo quando è uscito.
E questo è solo un esempio della danza prima-dopo che pervade, circonda, contiene e riempie questo romanzo: il Tempo, tiranno in ogni singola pagina, portatore di tristezza, finché scorre, di abbandono, di sconfitta e soprattutto di un mutamento sempre in levare di cose belle, cioè sempre a perdere, o di un accumulo invece entropico e inarrestabile di cose brutte, sempre a perdere anch’esso – il Tempo tiranno, dicevo, quando quelle stesse pagine vengono cucite tutte insieme smette di scorrere, e soccombe. E quando il tiranno soccombe siamo sicuri di essere nel romanzo – il luogo, come lo definì Jean-Paul Sartre, dove «chi perde vince».
D’altronde, buona parte del romanzo si svolge in un luogo chiamato «Circolo», e proprio in quel luogo, in una stanza inaccessibile del sottosuolo, si sta giocando un’interminabile partita a carte che, per come ferma il tempo, assomiglia tanto alle doglie di Mina Purefoy nell’Ulisse, destinata, come quelle doglie, a produrre un abisso improvviso – la completa rovina di qualcuno così come la venuta al mondo di qualcuno.
Mi viene in mente adesso, però, che un altro gran bel modo di leggere Ferito a morte — un bel modo ardito, romantico, definitivo – potrebbe essere farlo come si usava vedere i film al cinema negli anni in cui è stato scritto, e si è continuato a fare fino a tutti gli anni Settanta: si usciva di casa quando ci pareva, con le sigarette in mano e qualche soldo in tasca, si andava fino alla sala della quale più ci si fidava, in centro – dal nome grandioso e pieno di storia, Ariston, Gambrinus, Odeon, Eden, Excelsior – perché è lì che si erano visti i film più belli, si pagava il biglietto e si entrava. Il film era a metà, all’inizio, alla fine? Che importava? Una volta terminato sarebbe ricominciato da capo, e sarebbe tornato al punto in cui eravamo entrati. E allora si apriva un ventaglio di possibilità: si poteva uscire, o rimanere e rivederne un altro po’ fino a quella tal scena, o tirare dritto fino alla fine. Quanti film sono stati visti così? E non si sono forse riconosciuti i capolavori, quando c’erano?
Allo stesso modo si potrebbe aprire Ferito a morte a caso, a pagina 31, per esempio («Pare la cosa più viva del mondo, inguaiato com’è»), o 53 («The greeks used to call the sun/ He-who-smites- from-afar, and from here...»), o 94 («I comandi di un timoniere da una jole di passaggio»), andare avanti fino alla fine poi ricominciare dall’inizio, e il suo splendore rimarrebbe inalterato, il Tempo tiranno soccomberebbe comunque e chi perde vincerebbe ugualmente.
Un altro esempio della danza circolare tra il prima e il dopo è dato dal fatto che, considerando l’arco di tempo piuttosto lungo, abbiamo detto, che ha portato alla sua pubblicazione, Ferito a morte è stato il luogo nel quale l’autore ha consumato la propria giovinezza: giovane quando lo ha concepito e quando l’ha pubblicato non più; giovinezza che splende nelle prime pagine e che viene solo ricordata nelle ultime; per cui in questo romanzo giovinezza e perdita della giovinezza finiscono per convivere, o addirittura per coincidere – in un modo molto lacapriano, viene da dire, anche considerando tutto quello che La Capria ha scritto dopo.
La giovinezza, d’altra parte, è stata un affare molto serio, per Raffaele La Capria – decisamente più serio e impegnativo di quanto lo sia per Massimo De Luca, il protagonista di questo romanzo. Data infatti una sostanziale equivalenza degli stimoli esistenziali (una cornice naturale da paradiso perduto, una pericolosa inclinazione alle immersioni e ai tuffi nel mare, un fratello minore simpatico come un delfino, destinato fin da bambino a «danzare con la vita», come La Capria stesso definisce l’attitudine «inimitabile» di suo fratello Pelos a comporre insieme «fatuità, piccolezze, minuscoli splendori che tutti insieme formano l’esistenza di chi ne è toccato»), gli stimoli culturali sono molto diversi. Massimo sperimenta il riverbero della rinascita intellettuale del dopoguerra unicamente attraverso il personaggio del suo amico Gaetano, simbolo di un’obbligatoria, rinnovata – ma in fondo sempre la stessa, lacerante come al solito – scelta tra illusione (se restiamo, Napoli cambia) e disillusione (Napoli non cambierà mai, emigriamo). La Capria, invece, durante la propria giovinezza è protagonista in prima persona di un’esperienza intellettuale ineguagliabile, rappresentata dai tre anni di vita della rivista «Sud. Quindicinale di Letteratura e Arte», dal 1945 al 1947 – fondata insieme a compagni di strada giovanissimi come lui.
Ora io li menzionerò a uno a uno, e tra parentesi metterò l’età che avevano nel ’45, quando la rivista fu fondata: Pasquale Prunas, direttore (21), Franco Rosi (23), Luigi Compagnone (30), Antonio Ghirelli (23), Maurizio Barendson (22), Giuseppe Patroni Griffi (24), Tommaso Giglio (22), Mario Stefanile (25), Alberto Jacoviello (25), Raffaello Franchini (25), Ennio Mastrostefano (20), Dante Troisi (25). Raffaele La Capria è del 1922, come i suoi amici Ghirelli e Rosi, perciò aveva come loro 23 anni; a quell’età, dunque, mentre suo fratello danzava con la vita, La Capria si faceva carico insieme a un manipolo di coetanei di denapolizzare Napoli, per così dire, introducendo proprio da Napoli il seme della modernità nella cultura italiana tutta, asfissiata dal nazifascismo e dalla guerra. «Sud», infatti, rappresenta una delle primissime porte d’ingresso della grande poesia e della grande letteratura internazionale nella società intellettuale italiana del dopoguerra – e ad aprirla sono stati questi ragazzi napoletani. Altro che Gaetano. A rileggere adesso i pezzi che pubblicavano in quegli anni su «Sud» viene da chiedersi come sia possibile che oggi, 75 anni dopo, siamo conciati come siamo conciati – ma viene anche alla bocca lo stesso gusto amaro e trionfale che ritroviamo nelle pagine di Ferito a morte. Sul primo numero di «Sud», del 15 novembre 1945 (lire venti), c’è un elzeviro di Luigi Compagnone dal titolo Essi se ne vanno da Napoli che potrebbe essere anche il sottotitolo di questo romanzo. Vi traspare, fin dalle prime righe, la forza calma e però anche impaziente di chi sa, ma proprio perché sa è destinato ad abbandonare la partita: «È sempre successo, attraverso gli anni, che molta gente se ne sia andata dalla nostra città...». La stessa forza che anima Massimo davanti alla danza di suo fratello e dei suoi amici, Glauco, Sasà, Guidino Cacciapuoti – personaggi indimenticabili, capaci di concentrare tutta la loro energia nella disputa tra Clicquò e Pommerì — e che gli è necessaria per lasciare Napoli. Perché di questo si parla, nel romanzo: della scelta binaria, secca, tra Napoli e qualunque altro posto, tra restare e andare, tra adattarsi alla Foresta Vergine (è così che Gaetano chiama Napoli) e tirarsene fuori, tra respirare nella rinuncia e soffocare nella bellezza. Tra Veuve Clicquot e Pommery, per l’appunto.
In quei tre anni di «Sud» Raffaele La Capria si occupa per lo più di poesia, e in particolare di poeti inglesi – o che hanno scelto l’Inghilterra per viverci: Steven Spender (36 anni), W. H. Auden (38), T. S. Eliot (57), Cecil Day Lewis (41), Dylan Thomas (31) oltre che del non-poeta per eccellenza, Hemingway (46), il quale, proprio per una questione di circolarità, di tutti i poeti novecenteschi può essere considerato il padre. La Capria traduce poesie ancora inedite in Italia, le accompagna con commenti e saggi critici – le intreccia, ecco, in una trama in cui non fa mistero di includere anche la Nuova Napoli Europea prefigurata nelle pagine della rivista, che non prenderà mai il posto della vecchia ma è già prodigioso che esista come idea che sorge dai fumi della guerra. E poiché – l’abbiamo detto – tutti e tre gli anni di vita di «Sud» sono dedicati alla medesima tensione tra Napoli e altrove che genera la struttura circolare di questo romanzo, si può ben dire che sia appunto in quei primi tempi del dopoguerra, quando di anni La Capria ne ha ancora pochissimi e li dedica appassionatamente ai poeti e agli scrittori inglesi e americani, che Ferito a morte comincia a esistere. Uno dei tanti prima.
Vi è tuttavia un altro tema nel romanzo che non poteva essere presente in «Sud»: la parte più carnale, più sensuale, grazie alla quale la Foresta Vergine sprigiona la libido con cui è in grado di trattenere a sé tutte quelle vite ancora piene di vita, per soffocarle. Che non è tanto simboleggiata da Lei, Carla Boursier, l’amata e perduta, mai veramente avuta, fatale, fatata, fatua, sulla cui coda di cavallo bionda e ondeggiante si concentra da un certo giorno in poi tutto il dolore del mondo; bensì dalla ricerca della giornata perfetta, ricerca che accomuna tutti i personaggi abbracciati da questa storia. Tutti coloro, infatti, che rimarranno come coloro che se ne andranno, i vincenti e i perdenti, gli eccezionali e gli ordinari, Sasà e Guidino Cacciapuoti, Carla e Betty Borgstrom, Ninì e Massimo, sono affratellati dal mito della giornata perfetta, che per gli abitanti di una città il cui luogo comune insiste sul «campare alla giornata» diventa il simbolo della bellezza universale, della ricerca dell’assoluto.
È infatti una questione molto complessa, questa della giornata perfetta. Parte sì dalle condizioni meteorologiche, dal colore del mare e del cielo, dalla brezza, dal sole, ma si spinge ad abbracciare i rumori e gli odori degli scogli lambiti dalle onde, e poi, su su, in superficie, i muri delle ville patrizie disabitate o rose dal salmastro, i pasti e gli ozi che vi vengono consumati, gli amori corrisposti e non corrisposti, le belle e le brutte figure, oppure giù giù, in profondità, i ricordi micidiali evocati da tutto questo, la felicità perduta, o per usare il titolo di un successivo libro di La Capria, l’armonia perduta, tutti gli altri prima che compromettono presente e futuro, sciupando i momenti magici e curvando, sì, il tempo in direzione del fallimento. Come può esistere per Massimo De Luca la giornata perfetta se ogni bellezza, segreta o sfacciata che sia, con poche associazioni lo porta a schiantarsi sul ricordo della grande débâcle, della sconfitta disastrosa, della perdita irrimediabile? Ma l’ostinazione con cui, anche nel capitolo finale, anche quando ormai è finito tutto, e perfino Sasà a Capri si siede al caffè «dal lato meno frequentato, quello della funicolare che dà sulla Marina Grande», Massimo si lascia ancora entusiasmare dalla Coda di Cavallo Perduta, e quell’ostinazione è il suo eroismo. La «Grande Occasione Mancata» – la spigola che ti sfila accanto senza nemmeno sapere della fiocina che le è saettata vicino, e tu, ormai disarmato, continui ad andarle dietro. Insomma, in capo a un romanzo imperniato sulla ricerca della giornata perfetta si riceve la brutta notizia che la giornata perfetta non esiste.
Però possono esistere le belle giornate, quelle sì – e quante volte usa, La Capria, questa espressione, bella giornata! In tutti i suoi libri, nelle interviste, nelle conversazioni private, La Capria parla delle belle giornate, le evoca di continuo come lo sfondo ideale della vita e della letteratura, e le esporta, proprio così, anche nelle opere altrui, nelle quali non sono menzionate né descritte in quanto tali, ma sono lì, e splendono. Com’erano le giornate passate da Cosimo Piovasco di Rondò a ciondolare dal ramo per parlare con Viola? E quelle trascorse a caccia dal protagonista del Gattopardo? E quelle raccontate nella Bella estate, nel Buio oltre la siepe, nel Giardino dei Finzi-Contini? Belle. Erano tutte bellissime giornate – ed è proprio Ferito a morte che ce lo dice, è Raffaele La Capria che ce lo fa scoprire. Anche da pagina 145, la terz’ultima, si potrebbe cominciare a leggere questo libro: dove si narra dell’affondamento del motoscafo di Glauco, a Capri, dopo che il giovane si era buttato per salvare il passeggero caduto in mare e il motoscafo si era messo a girare in tondo, descrivendo sempre lo stesso cerchio e imbarcando acqua a ogni giro fin quando, «tirato giù dal peso del motore, come un piombo», si era inabissato, in un punto in cui, secondo Glauco, l’acqua era profonda più di mille metri. In questo modo si partirebbe direttamente dall’immagine-simbolo di tutto il romanzo, circolarità interrotta dalla profondità, per poi risalirlo ripartendo dal primo capitolo, quando Glauco, Massimo e Ninì se ne vanno a zonzo nel golfo di Posillipo su una barchetta a remi, ed è una bellissima giornata.
Ripensandoci per l’ultima volta, però, forse conviene partire proprio dalla citata pagina 53 («The greeks used to call the sun/ He-who-smites-from-afar, and from here... / I can see what they meant»), stavolta non più per caso, ma di proposito: perché in quella pagina entra in scena un professorino inglese di nome Roger, personaggio apparentemente irrilevante – irrilevante perché Carla lo considera tale, mentre flirta con Massimo – con lo scopo di portare W. H. Auden dentro il romanzo. Roger cita infatti ad alta voce questi versi del poemetto intitolato Goodbye to the Mezzogiorno, del 1958, dal quale proviene anche la strofa posta a esergo del romanzo, e una volta ritornati qui, dopo aver fatto tutto il giro, potremmo andare a cercarlo, questo poemetto, e leggerlo, e comprendere che questo Roger non è affatto irrilevante, poiché tramite lui e Auden e il suo poemetto dedicato a Napoli («Caliamo al sud, a un altrove riarso»), La Capria introduce nel romanzo la lente attraverso la quale lo si deve leggere. Queste per esempio sono le strofe che contengono i versi citati da Roger: «I Greci chiamavano il sole/ Colui-che-da-lungi-percuote, e da qui, dove/ Le ombre sono a fil di lama e l’oceano/ È sempre blu, li capisco: il suo occhio fisso/ Sfacciato se la ride di ogni idea/ Di mutamento o fuga e un silenzioso/ Vulcano estinto/ Senza uccelli o torrenti/ Fa eco alla risata». È il precipitato poetico di tutto il romanzo – e riporta dritti al La Capria poco più che ventenne di «Sud», che leggeva appassionatamente Auden, lo traduceva e lo presentava agli italiani.
Ma è alla fine del poemetto che Auden fa scattare il colpo di fiocina che centra in pieno questo romanzo e lo inchioda al suo destino di capolavoro ma anche di grande successo, critico e commerciale, cui contribuirà beninteso la vittoria del Premio Strega, sopraggiunta due mesi dopo la sua uscita e quattro giorni dopo il suicidio dell’amato Hemingway. Una fine che porta di colpo dove finisce tutto, o magari non proprio tutto ma quasi tutto, di sicuro dove finisce e ricomincia di continuo questo romanzo straordinario: «A benedire questa terra, le sue vendemmie, e chi/ La chiama patria: anche se non puoi sempre/ Ricordare con esattezza perché sei stato felice,/ Non puoi scordare d’esserlo stato».