La Lettura, 31 gennaio 2021
L’età del cosmo è 13,77 miliardi di anni
C’è una domanda alla quale l’uomo ha cercato risposta sin da quando ha alzato gli occhi al cielo affascinato (talvolta terrorizzato, talvolta entrambe le cose insieme) per gli eventi a cui assisteva impotente. Quando sono nate le stelle? Quando è nato l’intero mondo che ci circonda? Anche se la cosmologia già dal tempo degli antichi greci e anche prima ha proposto spiegazioni sull’evoluzione del cosmo, è stata la Bibbia a dominare la scena fino al XIX secolo. Nelle sue pagine l’universo e la vita umana sono interpretati come un unicum, e si ipotizza addirittura un’età del cosmo, astratta nella sostanza, di seimila anni.
Quando i geologi dell’Ottocento hanno cominciato a esaminare le rocce della Terra, ne hanno dedotto che la loro formazione richiedeva milioni di anni; a quel punto, inevitabilmente, anche l’età cosmica ha richiesto valutazioni diverse. Bisogna comunque aspettare i primi decenni del Novecento perché – grazie ad Albert Einstein (1879-1955) ed Edwin Hubble (1889-1953) – nasca una cosmologia moderna.
«A distanza di un secolo siamo riusciti a fornire nuovi dati precisi, ma esistono due conclusioni diverse che, pur vicine tra loro, lasciano la porta aperta a un mistero che aspetta di essere svelato», commenta da New York Simone Aiola, 33 anni, alla guida di un gruppo di 150 astrofisici con cui ha determinato il dato più aggiornato finora raccolto. Un dato secondo il quale l’universo è nato 13,77 miliardi di anni fa, con una tolleranza di 40 milioni di anni in più o in meno. Il risultato, pubblicato sul «Journal of Cosmology and Astroparticle Physics» nelle scorse settimane, è il frutto di osservazioni condotte con l’Atacama Cosmology Telescope sulle vette cilene a 5.200 metri d’altezza.
La stima dell’età rivela contemporaneamente la velocità di espansione dell’universo, cioè quanto rapidamente un oggetto si allontana dalla Terra. Il calcolo ora porta a 67,6 chilometri al secondo per megaparsec (circa 3,26 milioni di anni luce). Questo valore è diventato famoso come la «costante di Hubble» perché Edwin Hubble, il grande astronomo ex campione di pugilato, fu il primo nel 1929 a fornire le prove che esistevano altre galassie oltre alla nostra: Hubble ne misurò la distanza e la rapidità di spostamento stabilendo una relazione, appunto, tra la distanza e la velocità. Dal legame tra i due dati nacque il valore della costante di Hubble, che allora venne stabilito in 500 chilometri al secondo per megaparsec. Il geniale astronomo in realtà era partito da numeri inadeguati, ricavati dalle osservazioni con il telescopio allora più grande del mondo, sul Monte Wilson in California, ed era arrivato a un valore lontano dalla realtà. Rimaneva tuttavia valido il cuore della scoperta, cioè la prova dell’espansione dell’universo. Un fatto che gettò nel panico persino il grande Einstein, in quegli anni difensore della prevalente convinzione di un universo statico e immobile: al punto che introdusse nella sua Relatività generale del 1915 (dalle cui equazioni emergeva invece un universo in espansione) il valore di una costante «necessaria» per mantenere staticità ed evitare che la forza gravitazionale delle galassie producesse un collasso generale. «Il più grande errore della mia vita», confessò davanti ai dati raccolti da Hubble che lo smentiva.
Ma quel valore «sbagliato» riemergerà oltre 70 anni dopo dalle stesse equazioni come «esatto» grazie a una straordinaria scoperta, anche se con un significato diverso, anzi opposto. Adam Riess, Samuel Perlmutter e Brian K. Schmidt a fine anni Novanta scoprirono che l’espansione dell’universo accelera sotto l’effetto di una forza antigravitazionale, un’energia oscura di cui il cosmo è prevalentemente costituito (al 70 per cento). La discussa costante di Einstein aiutava a decifrarla e i tre astronomi vinsero il Premio Nobel.
Per la costante di Hubble, che calcola la velocità di espansione e con essa l’età dell’universo, bisogna attendere gli anni Novanta, quando entra in azione il telescopio spaziale Hubble della Nasa. Nel decennio successivo arrivarono i satelliti Wmap (americano) e Planck (europeo) per determinare valori attendibili percorrendo strade diverse. Con il telescopio Hubble – prendendo come riferimento le stelle Cefeidi, stelle variabili di cui si conosceva l’esatto ritmo di pulsazione e la distanza – si stimò una costante di Hubble intorno a 71 chilometri al secondo per megaparsec: da questa misura si ricavò un’età dell’universo tra i 9 e i 14 miliardi di anni. Un certo accordo sembrò arrivare dal satellite astronomico Wmap, capace di confermare un valore della costante intorno a 71, ottenuto misurando la geometria delle macchie a diversa temperatura della radiazione cosmica di fondo nella mappa dell’universo quando aveva appena 380 mila anni.
Per ottenere maggiore precisione sull’età dell’universo, però, occorreva andare oltre. Tutto si giocava sulla riduzione dei margini di incertezza dei dati. Nel 2019 Riess, scrutando con Hubble stelle Cefeidi e galassie, ha alzato il fatidico numero a 74; ciò corrispondeva a un «ringiovanimento» dell’universo di circa un miliardo di anni, intorno a 12,5. Il satellite Planck nel 2016, invece, valutando la radiazione cosmica di fondo, aveva riportato indietro la costante a 67,4, facendo crescere l’età a 13,7 miliardi.
La gara s’è fatta sempre più accesa, fino al nuovo contributo dall’osservatorio in Cile. «Abbiamo iniziato le ricerche nel 2013 e siamo riusciti a stabilire una costante di Hubble a 67,6 e l’età a 13,77 miliardi di anni – prosegue Simone Aiola, Project Leader del Center for Computational Astrophysics alla Simons Foundation di New York —. Il risultato ha prodotto una certa inquietudine perché avevamo di fronte il valore differente indicato da Riess. Ma i nostri dati erano in perfetta sintonia con quelli raccolti da Planck, il più sofisticato telescopio in orbita, superiore anche al Wmap americano».
Due valori contrapposti, dunque, a seconda che si scrutassero stelle e galassie oppure il fondo di radiazione cosmica: Adam Riess da una parte, Simone Aiola con il suo gruppo dall’altra. «La differenza – commenta Aiola – può essere legata a errori nelle osservazioni di Riess. In alternativa, per dare un senso alla distanza tra i risultati, abbiamo bisogno di un nuovo modello cosmologico. Devo aggiungere che a favore ci sono altre misure (effettuate prendendo a riferimento le stelle supernove) compiute da Wendy Freedman e perfettamente in accordo con le nostre. Per risolvere il problema occorre arte e creatività, condizioni di cui ha bisogno la cosmologia e che mi hanno spinto ad occuparmi di queste ricerche». Ma non solo: «Contiamo molto – conclude – sui telescopi più potenti che stanno nascendo sulle Ande e al Polo Sud, in grado di cogliere con ancora maggiore dettaglio dati essenziali per sciogliere l’intricato enigma delle nostre origini e della nostra evoluzione».