La Lettura, 31 gennaio 2021
QQWN6X Intervista a Naomi Oreskes
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S’intitola Possiamo fidarci della scienza? (Bollati Boringhieri) il nuovo libro di Naomi Oreskes. La sua risposta è affermativa: dobbiamo aver fiducia, ma forse non per le ragioni alle quali pensiamo di solito. Secondo l’autrice americana, il valore della scienza non sta nella sua utilità né in pretese certezze, ma nel modo in cui si raggiunge il consenso sui risultati. Geologa di formazione ed esperta di politiche ambientali, storica della scienza ad Harvard, Oreskes ama raccontare le vicende di idee giuste, come la deriva dei continenti, lungamente avversate e poi rivelatesi corrette. Dieci anni fa con Erik Conway scrisse Mercanti di dubbi, libro in cui documentava le bugie sul fumo da sigaretta diffuse da scienziati al soldo dell’industria del tabacco e le metteva a confronto con l’altrettanto pericolosa disinformazione fatta circolare sul riscaldamento climatico.
Perché la scienza, pur basandosi su continue revisioni, su aggiustamenti, su errori, e talvolta soffrendo di distorsioni intenzionali, riesce a fornirci una conoscenza affidabile e crescente?
«La scienza è un processo di apprendimento continuo, una disamina collettiva e trasformativa. Ci si confronta con l’evidenza empirica e si costruisce un consenso attorno a risultati rivedibili. Non dovremmo essere imbarazzati per questo o aver paura di cadere nel relativismo. Apprendere è una cosa buona e tutti sappiamo che quando impariamo, sin da bambini, a volte sbagliamo, correggiamo e aggiorniamo ciò che pensavamo prima. La storia della scienza insegna l’umiltà».
Nel libro lei scrive che l’oggettività scientifica si costruisce attraverso il confronto intersoggettivo sui dati. Così su certi temi, per esempio sul fatto che non vi è alcuna connessione tra vaccini e autismo, si crea un consenso scientifico. Ma in un Paese come l’Italia, in cui non c’è un’autorità come la Royal Society britannica che parli a nome della comunità scientifica, ogni studioso parla titolo personale.
«La vostra situazione è problematica, perché su qualsiasi tema complesso gli scienziati hanno uno spettro di visioni differenti. Inoltre, gli accademici amano far risaltare ciò su cui non vanno d’accordo piuttosto che le idee condivise. Il risultato è che il pubblico ha l’impressione che la scienza sia molto più divisa di quanto non sia. Un meccanismo istituzionale per comunicare alla società civile il consenso scientifico su temi rilevanti come il riscaldamento climatico e la pandemia è essenziale».
Lei sostiene che la forza della scienza risiederebbe nella sua diversità: metodologica, intellettuale, delle persone che la praticano. Perché?
«Io ho grande rispetto per l’utilità e la potenza della scienza, ma penso che alcuni scienziati commettano l’errore di ritenere che la scienza sia tanto più forte quanto più omogenea nel metodo. Lo chiamo feticismo metodologico. In biomedicina, per esempio, è assurdo che venga preso in considerazione solo ciò che supera la trafila completa della sperimentazione clinica».
Ma è quella procedura che garantisce l’affidabilità statistica dei risultati.
«Certo, e va benissimo. Ma ci sono problemi rilevanti, come gli effetti dell’esposizione a pesticidi o le conseguenze di una certa alimentazione, per i quali non è possibile o non sarebbe etico condurre una sperimentazione su esseri umani. Nel libro faccio l’esempio scherzoso della presunta inutilità del filo interdentale nel ridurre la gengivite: non è per niente facile fare studi clinici a lungo termine sugli effetti di comportamenti individuali. Non per questo dobbiamo gettare la spugna. Ci sono altre strade per produrre conoscenza scientifica attendibile. Bisogna trovare lo strumento giusto caso per caso. Il riscaldamento climatico è un fenomeno complesso, che va affrontato con una pluralità di approcci».
Ma perché la verità scientifica dovrebbe dipendere anche dalla diversità delle persone che la perseguono?
«Come ha mostrato da tempo la corrente femminista della filosofia della scienza, se vuoi scoprire la verità su una certa situazione, devi guardarla da una varietà di angoli differenti. E il modo migliore per farlo è avere una varietà di tipi diversi di persone che lavorano insieme: donne, minoranze, gente di provenienza, cultura, esperienze di vita ed estrazione socio-economica differenti. Il fatto che gruppi più eterogenei al loro interno siano più creativi è stato appurato nel mondo economico, ma vale anche nella scienza. Con tanti punti di vista diversi, anche antagonisti, è più probabile avvicinarsi a una spiegazione verosimile. Se tutti invece la pensano nello stesso modo, avranno gli stessi punti ciechi. Lo aveva già detto nell’Ottocento William Whewell, colui che inventò la parola “scienziato”: la spiegazione migliore si raggiunge facendo convergere una varietà di fonti e di evidenze eterogenee».
Gli scienziati devono essere scettici sulle loro ipotesi e metterle in discussione, ma anche nella società vi sono gli scettici sui risultati della scienza. Perché i primi sarebbero nel giusto e i secondi no?
«Esistono due tipi di scetticismo. Quello interno alla scienza è lo scetticismo sano, cioè la richiesta di evidenze: non prendo per buona una tesi solo perché la sostiene un collega o perché mi sembra attraente. Bisogna verificarla. Quello esterno alla scienza, invece, è spesso uno scetticismo corrosivo, che punta a screditare la scienza in quanto tale. Nessuna forma di evidenza sarà mai sufficiente per far cambiare idea a chi nega che il riscaldamento climatico sia causato dalle attività umane. Il loro è un cocciuto rifiuto di accettare la realtà. Il vero scettico è chi sa di non sapere. Ci sono tante cose che non sappiamo, ma non è un motivo per non fidarsi della scienza a proposito di quelle che sappiamo».
In virtù di questa distinzione, di fronte a una fake news non basta smentirla nel merito, bisogna anche mostrare come è costruita e perché ci inganna.
«Esatto. Se ci limitiamo a smontare le bufale, magari con fare scocciato, stiamo accettando il loro stesso piano di discussione. Come se esistesse davvero un dibattito. La strategia dei mercanti di dubbi è proprio quella di dare l’impressione che ci sia un dibattito. La risposta giusta consiste invece nella meta-analisi: spiegare al pubblico perché si tratta di disinformazione. E poi bisogna chiamarla con il suo nome: menzogna deliberata. Dietro quelle bugie c’è una motivazione ideologica, sostenuta spesso anche da persone istruite».
Secondo Dale Jamieson e altri studiosi, i dubbi sul riscaldamento climatico sono dovuti anche al fatto che si tratta di un processo troppo vasto e complicato per la nostra mente.
«Sono d’accordo, ci sono fattori psicologici e cognitivi, ma penso che, almeno negli Stati Uniti, la motivazione sia anche identitaria: qui molta gente non vuole cambiare il suo stile di vita consumistico, il suo ideale americano. Noi dovremmo ripensare a chi siamo, e non vogliamo farlo. E allora arriva un mercante di dubbi che dice: non preoccupatevi, va tutto bene. Insomma, c’è una molteplicità di ragioni concomitanti per cui rifiutiamo di accettare il cambiamento climatico».
Se è così, però, non ne usciamo facendo solo divulgazione.
«Certo, continuare a dire che la scienza è neutrale e presenta solo i nudi fatti non ha generato maggiore fiducia. Chi fa ricerca dovrebbe parlare apertamente anche dei valori che ha in comune con il resto della società. Io lo faccio nelle mie conferenze e funziona».
Lei è stata consulente negli studi preliminari sul contestato progetto di immagazzinamento di scorie nucleari a Yucca Mountain, in Nevada. Su scala ridotta, abbiamo anche noi un problema del genere. Nessuno vuole le scorie sul suo territorio. Che fare?
«È un problema difficilissimo a tutti i livelli: politico, sociale, culturale, oltre che scientifico, perché è una sfida progettare un deposito geologico che resti sicuro per 100 mila anni e più. Molte persone pensano che la soluzione a questa difficoltà aprirà la strada a un ritorno di investimenti nel nucleare. Magari hanno ragione, ma bisogna distinguere i due piani. Al di là di che cosa accadrà in futuro, adesso abbiamo scorie radioattive prodotte per mezzo secolo nelle centrali, disseminate in luoghi poco sicuri, quindi è interesse collettivo intervenire. Abbiamo ricevuto un’eredità spiacevole e non serve a molto dire che non la vogliamo nel nostro giardino».
Lei adesso sta studiando l’influenza dei fondi militari sulla storia dell’oceanografia. Chi paga la scienza fa la differenza tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo sul mare. Eppure dobbiamo fidarci: sembra un paradosso.
«Non lo è, perché raccontando questa storia faccio un’operazione di trasparenza. I cittadini devono essere consapevoli che la scienza è pagata anche dai militari, così possono esercitare un controllo sociale. Anche la mia borsa di dottorato fu pagata in parte con fondi privati, non è quello il problema, tante aziende finanziano splendide ricerche. Ma il pubblico deve sapere se gli scienziati sono liberi di dire quello che vogliono oppure hanno vincoli e conflitti di interesse. Non puoi chiedere alla gente di fidarsi della scienza e poi non essere trasparente».