La Lettura, 31 gennaio 2021
Ridateci il consumismo
Uno dei vantaggi della misantropia è che se ben praticata ti evita parecchie seccature: riunioni familiari, feste comandate, pubbliche ricorrenze e, se proprio ci sai fare, persino i funerali. I pochissimi che conoscono la tua data di nascita sanno che, almeno in quel giorno fatidico, è meglio non importunarti con doni, auguri o felicitazioni. Il telefono tace, la mail è un cimitero di spam, la vita una cornucopia di delizie solipsiste. Vi assicuro, ci vogliono anni, un bel po’ di pazienza e dosi massicce di maleducazione per accreditarsi come il Mr Scrooge della famiglia.
Pare che di recente mio nipote se ne sia esplicitamente lamentato. «Perché zio non viene alle feste, ma soprattutto perché non fa mai – e dico mai – regali?». La risposta di mio fratello tutto sommato è stata puntuale e icastica: «È fatto così. È uno spostato. Noi ci siamo abituati, è bene che ti ci abitui anche tu».
Non nego che quando ormai un anno fa la pandemia ha sconvolto dalla mattina alla sera le nostre abitudini, una voce nel cervello – la voce gretta, egoista, malvagia che guida le mie scelte – abbia preso a rassicurarmi. Dai, non preoccuparti, sussurrava suadente. Dopotutto, per te non cambierà niente. Continuerai a condurre la solita vita: lavorare, farti i fatti tuoi, avere strizza di ammalarti e crepare. Che ingenuità, che dabbenaggine! Allora non potevo mica sapere che la sociopatia ha senso, nobiltà e bellezza a patto che possa esprimersi liberamente in una società aperta e prospera. Per contro, nel mondo cupo, disadorno ed ermetico in cui da troppi mesi viviamo intrappolati la diserzione sociale ha perso poesia e qualsiasi forza eversiva. Tanto per dire, il Natale scorso non accettare gli inviti dei miei, almeno rispetto al solito, è stato un dovere dettato da civismo e buonsenso, non certo un diritto garantito dall’ingratitudine e dalla scortesia. Ciò mi ha provocato un inedito complesso di colpa: d’un tratto non esserci, non partecipare mi è sembrata una vera bastardata.
Last ChristmasA proposito dell’ultimo Natale e degli strani fenomeni che ha provocato, ho letto da qualche parte che in Inghilterra, per la prima volta da che uscì trentasei anni fa, Last Christmas degli Wham! ha raggiunto la vetta delle classifiche. Vi risparmio i commenti sociologici del giornalista di turno e la mia irritazione nel compulsarli; anzi vi esorto a mollare anche questo articolo e correre su YouTube a dare un’occhiata al vecchio video che colonizzò le tv della nostra adolescenza in quel remoto Natale dell’85. Non temete, sarete in ottima compagnia. Mentre scrivo, il video è stato visualizzato seicento milioni e passa di volte; confido che quando il mio pezzo uscirà la platea di visualizzatori si sarà considerevolmente allargata.
Se avete seguito il mio consiglio non potrete avere più dubbi sul fatto che non c’è un solo dettaglio iconografico disseminato in quel videoclip preistorico – a cominciare dalle Jeep che sfrecciano felpate in mezzo a un’amena gola innevata, passando per la cotonatissima acconciatura di George Michael, fino agli sguardi furtivi e allusivi che si scambiano gli ex innamorati – che non risulti di una struggente volgarità. Per non dire di occhiali a specchio, sciarpe di cashmere, flûte di champagne, ciocchi da ardere... È tutto così patinato e melenso da spezzarti il cuore.
Naturalmente la commozione retrospettiva non m’ottenebra al punto da dimenticare che a quel tempo i sentimenti nei confronti della suddetta canzone erano decisamente meno benevoli. In fatto di musica i miei gusti erano governati da una severa intransigenza calvinista. Già, il classico nerd spocchioso e sprezzante. Del resto, allora non conoscevo il mirabile elogio che Proust rivolge alla cosiddetta mauvaise musique, sì, insomma, la cattiva musica. Oggi, invece, ho imparato a mie spese che nulla cattura lo Zeitgeist meglio di una canzonetta. Ecco spiegato il tardivo primato di Last Christmas. È come se di colpo la sdolcinata estetica del cinepanettone avesse colonizzato i nostri poveri cuori impauriti.
Incauto elogio del consumismo
Ne ho avuto prova plastica durante una lezione (in remoto naturalmente), quando mi sono trovato a spiegare al gelido occhio del mio laptop il bel passo della Peste di Albert Camus dedicato al Natale di Orano. «Il Natale di quell’anno fu più la festa dell’Inferno che quella del Vangelo. I negozi vuoti e senza luminarie, i cioccolatini finti o le scatole vuote nelle vetrine, i tram stracolmi di figure scure, non c’era nulla che rammentasse i Natali passati. In quella festa che un tempo accomunava tutti, ricchi e poveri, ora c’era spazio solo per rari pranzi solitari e ignobili che pochi privilegiati pagavano a peso d’oro in chissà quale sudicio retrobottega». Da non crederci: persino l’austero Camus è consapevole che i soli Natali degni di nota sono quelli in cui i negozi traboccano di merci e avventori, in cui le piazze risplendono di luci e alberi addobbati, in cui le vetrine espongono leccornie variopinte e profumate. Si ha un bel biasimare gli inutili fasti del consumismo, lo shopping compulsivo, la prodigalità, gli sprechi, l’accumulo inconsulto di generi voluttuari. Fin troppo facile protestare, stracciarsi le vesti contro le smanie di chi accumula, dissipa, rateizza, s’indebita, abusa di sé e delle proprie magre sostanze. È così ovvio, così stupido esecrare gli edonisti e i viziosi, gli studenti indisciplinati e le massaie bovariste, chiunque si colga a sognare contemplando il profilo Instagram di qualche milionario vanesio ed esibizionista.
La verità – che questi tempi cupi non fanno che ribadire – è che la natura umana esulta a contatto dei fasti del superfluo; che il lusso, se possibile, è persino più romantico di un tramonto o di una mareggiata. Da qui il senso di sconforto, desolazione, a tratti persino di sdegno, che mi suscitano le saracinesche sprangate dei ristoranti, le voci degli arbitri di calcio che rimbombano negli stadi vuoti, il panorama metafisico che ogni notte contemplo dalla finestra. Tutto mi sarei aspettato tranne che un giorno avrei sentito nostalgia per le file chilometriche di fronte agli Apple Store e ai Musei Vaticani. Che avrei finalmente compreso il genio del marketing e della pubblicità. Che mi sarei pentito così amaramente per tutte le volte che ho rifiutato un invito a un festival letterario, a un salone internazionale del libro, a un tour di presentazioni in provincia. Ah, quali meravigliose occasioni di assembramento sedizioso! C’è un bambino in me, un piccolo ingenuo selvaggio, una bestiolina impressionabile, che si emoziona di fronte ai monili luccicanti. Se c’è una cosa che la pandemia mi ha insegnato – e Dio sa quanto sono pigro e ottuso come scolaro – è che non c’è niente di bello nella frugalità imposta da circostanze avverse, non c’è decoro nella rinuncia, né umanità nella parsimonia.
Non sono un politico, m’intendo poco di sociologia, ho un’epidermica avversione per gli economisti. Sono uno di quei privilegiati che passa la vita a scrivere, a leggere e a fantasticare, e so per esperienza che la sfrenata macchina del capitalismo ha offerto alla narrativa borghese (la mia passione) una messe di immagini, sensazioni, occasioni, pretesti, diversivi così prelibati che la mia fantasia non può farne a meno: ne ha bisogno per vivere. A pensarci bene, è da lì che viene gran parte della mia ispirazione. La mia, certo, ma anche e soprattutto quella di tanti altri migliori di me.
Visto che è di Natale e di assembramenti che parliamo, mi torna in mente il racconto giovanile di Tolstoj La notte di Natale in cui si lascia andare a una delle sue estatiche divagazioni sull’incanto delle feste. Non esistono altri romanzieri che abbiano un senso così acuto per gli sfavilli dell’abbondanza. «Perché descrivere i particolari di un ballo? Chi non ricorda la strana, sorprendente impressione che hanno prodotto su di lui: la luce accecante di migliaia di candele, gli oggetti illuminati da tutte le parti e, al tempo stesso, da nessuna – per cui non hanno ombra, e il bagliore dei brillanti, degli occhi, dei colori, del velluto, della seta, delle spalle nude, della mussola, dei capelli, delle marsine nere, dei panciotti bianchi, delle scarpette di raso, delle divise multicolori, delle livree; l’odore dei fiori, dei profumi delle donne; il suono di migliaia di passi e di voci che soffocavano i suoni allettanti e provocanti di un qualche valzer o di una polca; e l’ininterrotto alternarsi e il combinarsi bizzarro di tutte queste cose? Chi non ricorda quanto poco gli riuscisse di distinguere i particolari, come tutte le impressioni si fondessero fino a lasciar posto a una sola: (...) un senso d’allegria, e allora tutto sembrava così facile, luminoso, pieno di delizia, e il cuore batteva con tanta forza».
Quella soave signora
Sono questi i momenti, mentre deliro sulle opportunità artistiche offerte dall’opulenza, che mi viene in mente Miss Dalloway, l’eroina di Virginia Woolf. Mi rendo conto che forse c’entra poco e che probabilmente dovrei volgere lo sguardo altrove. A qualche truce arrivista balzachiano, a uno dei tanti filistei messi in scena da Maupassant, agli ipocriti ricconi di Edith Wharton, agli ombrosi altoborghesi di Henry Green, agli yuppie più o meno psicopatici di Easton Ellis e Tom Wolfe.
E invece è proprio a lei che penso: alla soave signora, alle piccole fatuità così frivole in apparenza ma di fatto così piene di saggezza. Al suo spiccato senso della vita e delle opportunità. Del resto, lei è la convalescente per antonomasia. Sebbene Woolf non ci fornisca dettagli specifici sulla grave malattia da cui è risorta per il rotto della cuffia, sappiamo che Clarissa Dalloway è in quell’incantevole stato d’animo di chi se l’è vista brutta e ora non chiede di meglio che tornare a vivere. All’atmosfera galvanizzante e festosa contribuisce di certo l’euforia post-bellica che si respira per le eleganti vie di Londra, e l’inattesa visita di Peter Walsh, l’amore giovanile sacrificato per sposare l’assai più ricco e perbene Richard Dalloway.
Nel pieno dell’elegante ricevimento così scrupolosamente organizzato, Clarissa si trova a riflettere su ciò che Peter e Richard pensano di lei: è certa che il primo la trovi una snob e sa che il secondo la giudica un po’ troppo infantile per l’età che ha. Ed è allora che Clarissa ha uno dei suoi scatti d’orgoglio, uno degli accessi di consapevolezza che ne fanno una donna eccezionale: «Ma sbagliavano tutt’e due»; sia Peter che Richard. «A lei, semplicemente, piaceva la vita». E in effetti non c’è modo migliore di metterla. Amare la vita ti espone a un certo grado di leggerezza. Impossibile amarla con gravità. Se la ami, ami anche divertirti. E se ami divertirti ami anche e soprattutto le feste. «Ma mettiamo che Peter le dicesse: “Sì, sì, le tue feste – che senso hanno le tue feste?”. Tutto quello che poteva rispondere era (e non poteva aspettarsi che qualcuno capisse): sono un’offerta».
Ecco cos’è una festa, è un gesto inutile, gratuito e bellissimo. Clarissa sa che né Peter né Richard saprebbero organizzare, come ha appena fatto lei, una festa senza nessuna ragione. Una festa per il solo piacere di festeggiare, sfoggiando abiti eleganti, servendo pietanze squisite, riempiendo la casa di fiori. Ed eccola tornarci sopra ancora più lucidamente andando al nocciolo della questione. «Ma per andare più a fondo, al di là di quello che dice la gente (e come sono superficiali, frammentari, quei giudizi), nella mente sua che significava per lei, questa cosa che chiamava vita? Oh, era davvero strano. C’era il Tal dei tali a South Kensington, o il Tal altro ancora, ad esempio, a Mayfair. Lei aveva costantemente il senso della loro esistenza, e pensava che spreco, e provava pietà, e pensava: se soltanto li si potesse mettere tutti insieme, e lo faceva. Ed era un’offerta: mettere insieme, creare. Ma per chi? Un’offerta, per amore dell’offerta, forse. Comunque, lei aveva quel talento. Non aveva nient’altro: non sapeva pensare, né scrivere, neppure suonare il piano. Confondeva i turchi con gli armeni. Amava il successo. Odiava le scomodità. Voleva piacere. Riusciva a dire sciocchezze a fiumi. E fino a oggi, se le chiedevano che cos’era l’equatore, non lo sapeva. E comunque, che un giorno seguisse l’altro, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato: che ci si svegliasse al mattino per vedere il sole, passeggiare nel parco, e incontrare Hugh Whitebread, e poi d’improvviso ecco che arrivava Peter, e poi le rose – tanto bastava. Dopo ciò era incredibile che ci fosse la morte! – che dovesse finire; che nessuno al mondo dovesse sapere quanto lei avesse amato ogni cosa; quanto, ogni momento...».
È sotto l’influsso di Clarissa Dalloway, sotto la sua deliziosa e vaporosa ala, che sogno di poter tornare quanto prima a interpretare il misantropo in un mondo leggero e vaccinato che ha di nuovo imparato a spassarsela.