Avvenire, 30 gennaio 2021
Milano, via Paolo Sarpi si è svuotata
«Non vedi? Non si vedono più in giro. Hanno paura». Nella
Chinatown milanese, la seconda comunità orientale più grande d’Italia (dopo quella di Prato) un anno di pandemia ha lasciato il segno. Quei carretti stracarichi di chissà cosa, abiti, forse, borse e cibo proveniente dai cargo appena giunti a Genova o nel Sud Italia, non ci sono più. Non bloccano più il traffico nelle vie della Ztl intorno a Paolo Sarpi. «Hanno paura, tanti se ne sono andati, sono ritornati in Cina. Tanti altri hanno chiuso e hanno paura ad uscire. Preferiscono aspettare ancora tempi migliori» spiega Franco, punto di ritrovo per gli habituè del caffè nel quartiere più cinese d’Italia. In via Paolo Sarpi i ristoranti orientali sono ancora chiusi, malgrado l’arancione della Lombardia e la possibilità di fare asporto. C’è la storica ravioleria, fino all’anno scorso con lunghe file d’attesa a tutte le ore del giorno, dal pranzo all’aperitivo al dopo cinema. Sembra passata u- na vita e invece è solo un anno. È di un anno fa la vicenda dei due turisti cinesi, primi positivi al Covid in Italia, ricoverati allo Spallanzani di Roma. «I cinesi? Vanno e vengono, chiudono i negozi e i ristoranti e ritornano in Cina. Là in questo momento si vive meglio» spiega la donna intenta a impastare farina e carne scottona piemontese. Lì l’economia è già ripartita grazie anche alla campagna vaccinale di massa intrapresa già da diversi mesi. Le prime iniezioni sono state fatte ad agosto. E da allora in poi è stato tutto in discesa. «Siamo in Italia da dieci anni – aggiunge – e siamo sempre state qui. Ma nell’ultimo anno c’è stata poca gente». Adesso i negozi di abbigliamento e i centri estetici sono aperti ma sono rimasti chiusi per mesi. Anche quei camion che arrivano da Prato carichi di vestiti e borse se ne vedono pochi.
«Soffrono anche loro la crisi –racconta la barista italiana con negozio di dolci e pane in via Paolo Sarpi – stanno tenendo duro come tutti. Ma molti non riapriranno, hanno chiuso il negozio e se ne sono andati via. Forse sono tornati in Cina, non lo sappiamo perché non comunichiamo molto fra di noi. In via Paolo Sarpi ci sono due associazioni: una italiana e l’altra cinese». La festa più importante del quartiere è il Capodanno cinese, ma come l’anno scorso non si farà nulla. «Non hanno ancora confermato ma sicuramente non lo festeggeremo per il secondo anno consecutivo». Il Covid ha frenato anche i tradizionali viaggi per la Cina, soprattutto in questo periodo di festa. Si preferisce lavorare per recuperare il tempo perso ma soprattutto in questo momento è veramente difficile tornare in Cina. «I voli costano troppo – racconta Diana, nome italiano ma di origine cinese, con un negozio di sartoria in via Canonica – eppoi ci tocca fare quattro tamponi: due in Italia e due in Cina e quattro settimane di quarantena, due in hotel e due in casa». La Cina in questo momento ha paura dei casi d’importazione. «La maggior parte dei cinesi di Milano è partita durante la prima ondata – racconta Massimo, in Italia da quando era piccolo –. Poi ad agosto sono partiti i figli più grandi, quelli che vanno al liceo o all’università. Li hanno mandati in Cina per proseguire gli studi. Qui è impossibile – aggiunge – nessuno ci capisce più niente con la scuola: una volta aprono e poi chiudono. Vede? Ci sono troppe persone in giro. Eppoi anche questa storia del vaccino, con le dosi che diminuiscono ogni giorno». Massimo non lo dice ma è scocciato. «Noi avevamo la nostra medicina anti-Covid e ora non abbiamo più niente». Una settimana fa i Carabinieri del Nas hanno sequestrato 65mila confezioni di farmaci illegali destinati alla cura del Covid nella Chinatown milanese.«Per noi erano farmaci importanti, per curarci, ma non avevano l’autorizzazione italiana.. È difficile vivere in questo modo: io ho una bimba che frequenta la scuola elementare ma ho paura a mandarla a scuola per il Covid. Ma se non la mando vengono i carabinieri a casa mia». Allora meglio mandare i figli in Cina. «Adesso però è tardi. Da Pechino preferiscono che noi rimaniamo qui, fintanto che non è finita la pandemia».