il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2021
22QQAFZ10 Le divoratrici
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Simbolo l’unione sobria, vagamente vaginale, di due parentesi, come un paio di ciglia che si guardano, obiettivo rivendicare più spazio, affermarsi occupandolo soprattutto col corpo. Vederlo dilatarsi, ingrassare, assecondando la fame. Farlo come atto liberatorio, sovversivo, contro un sistema patriarcale e una società basata sull’immagine che spinge le donne a farsi piccole, in ogni senso, in baccanali segreti, a tema, sotto il nome di Supper Club, banchettando avidamente in luoghi privati, occupati anche illegalmente, col cibo recuperato dai cassonetti dei supermercati.
Tra un salmone speziato e una bouillabaisse, tra una cheesecake e una fiorentina strappata coi denti e brandita con le mani, mentre fuori il mondo parla solo di wellness, le donne che partecipano ai Supper Club s’ingozzano fino a vomitare, ballano e si sballano, urlano, vanno a letto con chi capita, tornano a casa all’alba sfatte. Sono millennials ferite, segnate da tradimenti, violenze, aborti. “Ho iniziato a scrivere Le divoratrici”, spiega Lara Williams, il cui esordio è stato per Time, Vogue e The Guardian, che l’ha definita “una voce che ha molto in comune con Sally Rooney, incerta sul proprio posto nel mondo, ma al tempo stesso determinata a trovarlo”, il libro culto del 2019, una sorta di Fight Club femminista, “dopo essermi iscritta a un corso d’improvvisazione teatrale per combattere una persistente timidezza. Volevo umiliarmi in una classe piena di sconosciuti, facendo qualcosa di estroverso per definizione, come terapia d’urto. Ambivo a scrivere una storia che consentisse di abbandonarsi all’ansia come cura”.
Classe 85, di Manchester, già autrice della raccolta di short stories Treats (istantanee influenzate dalla lettura di Lorrie Moore, Amy Hempel, Grace Paley su criticità, fragilità e dilemmi del diventare adulte oggi), Williams spiega di aver molto riflettuto sul “tacito accordo secondo cui dobbiamo sempre dimostrarci compiacenti, gradevoli, rose dal dubbio di non essere mai abbastanza”.
L’appetito, inteso come desiderio verso il cibo o l’esser nutrite, le è così sembrato il migliore strumento d’indagine per esplorare che cosa succede “se invece le donne decidono consapevolmente di guadagnare spazio, e voce, dicendo sì a quello che il corpo chiede in dose maggiore”. Incontriamo la protagonista, Roberta, alla soglia dei trenta, macerata dai tormenti come un kimchi. Lavora per un sito web di moda, compilando schede prodotto, è alienata, odia il suo corpo, lo considera “una barzelletta”. Non molto è cambiato dai tempi dell’università. Gli anni che aveva immaginato “una festa danzante” li ha trascorsi guardando fuori dalla finestra di camera sua mentre il cuore “spiegava i suoi tentacoli per la città, sferrando colpi alla cieca nell’oscurità”, divorata dal senso d’inadeguatezza. Cucinare, per sé o gli altri, scandiva così le sue giornate e si rivelava cura e passatempo (anche Lara ama i fornelli, “cucinare nutre e pacifica e dirlo non è antifemminista!”). Con un passato segnato da un padre che l’ha abbandonata a sette anni, uno stupro quando era ancora vergine e una relazione sminuente con un professore più anziano di lei, Roberta si sente perennemente squassata da una “fame senza fondo e ardente”. Ha un vuoto da riempire ma anche un gran bisogno di capire chi è. A darle una scossa è l’incontro con Stevie, eccentrica studentessa d’arte, con cui fa lievitare, come un soufflé, un rapporto simbiotico basato sulla passione per il cibo, le molestie subite, l’odio verso gli uomini. Sono loro le fondatrici del Supper Club.
La narrazione è intervallata da sezioni decomprimenti dedicate al processo metodico di cottura o preparazione di un alimento (la pasta madre, le cipolle caramellate, gli spaghetti alla puttanesca) “ma io non le considero ricette e basta. È un modo, anche quello, per occupare spazio, sulla pagina. Ci tenevo a scrivere un libro trasgressivo, con al centro figure femminili capaci di rompere i codici di comportamento imposti”. “Volevamo espanderci ed essere sfamate, volevamo sapere che cosa si provava. A sentirsi piene come un uovo, anziché avide e fameliche tutto il tempo”, dice a un certo punto Roberta. Contro la dittatura della perfezione non c’è in effetti niente che spacchi di più dell’immagine di una donna che si strafoga perché le va e non chiede scusa a nessuno, in primis a se stessa.