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 2021  gennaio 30 Sabato calendario

QQAN10 Intervista a David Grossman


QQAN10

Se da questo colloquio e dal libro che lo origina si volesse ricavare una word cloud – quelle «nuvole» di parole più grandi, più piccole, che danno l’impatto visivo dei termini chiave – a caratteri cubitali verrebbe fuori «pace», seguito da «casa», «umanità», «libertà», «individualità», «democrazia». Ma pure «massaggio», che non è un refuso, proprio con la «a». Per David Grossman le parole contano, e non solo perché fa lo scrittore, ma perché crede nel loro valore performante o deformante, e spera (anche «speranza» ha molte occorrenze) che possano dare una mano a sgrezzare il mondo in cui viviamo.
Nato nel 1954 a Gerusalemme, è uno degli scrittori israeliani più noti al mondo per il suo attivismo intellettuale prestato alla causa della pace in Medio Oriente, che porta avanti attraverso romanzi, testi per bambini, interventi pubblici. Il libro appena uscito in Italia – Sparare a una colomba – è una raccolta di quest’ultimo tipo di produzione, fatta di discorsi, saggi, conferenze e articoli di giornale. Vanno dal 2008 al 2020 e dentro ci troviamo i fatti della storia grande – la Shoah, la nascita di Israele, il conflitto con i Palestinesi, l’America di Trump, il Covid – ma sempre incarnati nella storia piccola, perché come scrive in un discorso del 2010 i drammi avvengono «in cucine, in camere da letto o nelle camerette dei bambini». E siccome l’uomo è generoso, in molti di questi testi parla del dramma in casa sua, di quel figlio ventenne Uri, militare di leva ucciso in Libano da un missile Hezbollah a poche ore dal cessate il fuoco.
Naturalmente parla anche di letteratura, intendendo non solo quella che si scrive ma anche quella che si legge. E paragona il rapporto fra scrittore e lettore a uno scambio di «ululati» fra lupi selvaggi. Gli abbiamo chiesto perché, ma è davvero l’unica domanda a cui non ha risposto: «Le metafore sono come le barzellette, non si spiegano». Touchée.
I titoli nelle traduzioni straniere: parlando ad Harvard di uno dei suoi romanzi più noti, «A un cerbiatto somiglia il mio amore», lei dice che in ebraico era «Una donna fugge una brutta notizia» e in inglese «To the End of the Land». Il nuovo libro in italiano è «Sparare a una colomba». L’ha scelto anche lei?
«Consulto sempre il mio editor perché non ho idea di come risuonino i titoli in italiano, arabo o cinese, così mi fido e credo scelgano qualcosa che dia un’eco di quel che c’è nei libri. Purtroppo quella colomba del titolo in Israele è stata assassinata anni fa ed è molto difficile riportarla in vita».
La colomba della pace; come quella dorata, enorme, che Lady Gaga sfoggiava alla cerimonia di insediamento di Joe Biden.Che effetto le ha fatto?
«Mi sono sentito bene e sollevato, assieme a milioni di persone nel mondo, a sentire che la ragione è stata ristabilita. Che la politica velenosa di Trump è fuori gioco; so che non scomparirà e cercherà di tornare in molti modi ma ora abbiamo un leader del “mondo libero” – come si diceva un tempo – che è responsabile, razionale, che nel suo staff sceglie persone di ogni genere, colore, religione, e ciò significa che è aperto al dialogo, non uno che si circonda solo di gente che riflette come uno specchio quanto è intelligente e meraviglioso».
Questo libro è una raccolta di discorsi. Per lei sono retorica, seccature, o strumenti per scuotere le coscienze?
«Io ci lavoro molto, a volte settimane, perché un discorso è una creazione letteraria, ha una melodia interna e l’emotività conta come la razionalità; è un impegno gravoso e infatti quando chiedo agli scrittori un discorso a volte mi dicono “oh no no, sono concentrato sul romanzo”. È vero, ma quando finisco di scrivere un discorso mi sento sollevato perché ho formulato pensieri che prima avevo solo a livello di intuizione».
Com’era quello di Biden?
«Un buon discorso, anche se a volte sembrava ripetitivo. Ma lo era dopo quattro anni in cui siamo stati deprivati di quei concetti che ha menzionato ancora e ancora, “unità” “visione” “tolleranza” “rispetto”. Tutte parole chiuse a chiave in un armadio da Donald Trump. Biden le ha rilegittimate, ha ridato loro spazio e valore. Un esempio di come un discorso può avere significato e cambiare la realtà, perché c’era la qualità del riparare, del curare».
Pare che per suscitare interesse in un discorso si debba essere molto individuali (e infatti lei parla spesso di sé e della sua famiglia) e insieme molto universali (per essere comprensibili). Per lei?
«Quando ho parlato davanti a 100 mila persone al memoriale dell’assassinio di Rabin nel 2006 io parlavo solo a me stesso, ma sentivo che facevano uno sforzo per ascoltare e all’improvviso questa grande massa è diventata silenziosa e in questo silenzio ho sentito tante sfumature. Io non sono uno speaker da piazza, non urlo, non infiammo con fuochi d’artificio ma cerco, anche quando sono in una piazza, di parlare come a una persona sola, individualmente».
La Shoah: quest’anno anche in Italia sono morti alcuni sopravvissuti e altri sono ultranovantenni. Ma lei dice che ogni ebreo è un “piccione viaggiatore della Shoah”. Come fare memoria ?
«Credo ci siano due vie: una scientifica, storica, che consiste nell’investigare, esaminare dettagli, dati, numeri, processi. L’altra è quella dell’arte: attraverso libri film spettacoli siamo in grado di essere senza protezione nel vagone, nel ghetto, nel campo di sterminio. Così anche chi non ne sa molto sarà capace di chiedersi come si sarebbe comportato se fosse stato là. Da vittima, come avrebbe mantenuto la sua unicità in una realtà pensata per cancellare l’individualità; e da nazista o collaboratore, come avrebbe resistito a slogan, parate, lavaggi del cervello».
Di Sophie e Hans Scholl – i due fratelli tedeschi ghigliottinati per aver diffuso volantini della Rosa Bianca contro il regime nazista all’università di Monaco – in un suo discorso in Germania ha detto che dimostrano che esiste un margine di libertà di scelta in quasi ogni situazione. E nel suo discorso in Olanda cita un altro esempio, Etty Hillesum...
«Etty Hillesum insisteva a trovare significato in ogni momento; nel discorso cito dagli scritti che ho avuto il privilegio di vedere in originale. Quando di notte, nella baracca, circondata da donne stravolte da lavoro e fatica, lei stava sveglia cercando di restare il “cuore pensante” del campo di concentramento, una combinazione di pensiero e emozioni in grado di trascendere la condizione insopportabile. Quanto agli Scholl, non avevano chances di non essere presi ma continuavano, dichiarando di non voler essere vittime. Io sono sempre affascinato dalle persone capaci di non diventare vittime di una situazione; i regimi dispotici li temono perché conoscono il potere che hanno di ricordare che cosa è la libertà».
Sia qui sia nei romanzi lei ha scritto molto di speranza.
«Speranza è ricordare che cosa la vita e le relazioni fra persone dovrebbero essere. E se hai speranza hai anche il futuro. In ebraico questa parola porta con sé l’altra. Quando siamo in una situazione terribile, se abbiamo speranza lanciamo un’ancora verso il futuro e cominciamo a tirare noi stessi passo dopo passo verso quell’ancora. Nel mio ultimo romanzo La vita gioca con me la protagonista è stata piazzata sotto il sole, in piedi sulla collina, a fare da ombra umana alla piantina di una crudele comandante; può essere la cosa più orribile, un essere umano usato come un oggetto. Ma lei decide di salvare la vita di questa pianta e forse è l’unica, in questo campo di vittime e carnefici, a fare qualcosa di Buono. Con il male è facile collaborare, basta accodarsi, per il bene devi far qualcosa, e questo richiede energia e coraggio».
La Germania: lei ha tenuto molti discorsi lì. Ha mai studiato il tedesco?
«No, e quando smetterò di scrivere vorrei imparare l’italiano e lo yiddish. Ma ho letto Goethe, Schiller, Thomas Mann, Siegfried Lenz, Günter Grass, Heinrich Böll e scrittori moderni. Dopo la Shoah la letteratura tedesca fu boicottata in Israele. All’inizio dei Settanta ha cominciato a essere tradotta in ebraico e all’improvviso abbiamo scoperto un mondo tutto nuovo, di persone che raccontavano la loro esperienza nella guerra, e realizzammo che c’erano tedeschi critici, scrittori coraggiosi».
Ancora la Germania. In un discorso lei ricorda che ha perso 80 familiari nella Shoah e confessa che quel Paese è stato un suo incubo. Poi ha parole di stima per l’ex presidente Gauck e per la Merkel, e paradossalmente, quando parla di una speranza per la pace con i palestinesi, cita il modello Israele-Germania. Cos’è cambiato?
«Rifiuto sempre di guardare con occhio monolitico la realtà. Poi ho incontrato tanti giovani tedeschi e la Germania, almeno fino a quando i neonazi sono diventati più forti, ha cercato di educare le nuove generazioni alla lezione della Shoah. Ho saputo di come l’ex presidente Gauck si è comportato contro il suo regime ed è stato un vero Mentsch, che in yiddish è uno che “fa” qualcosa. E la Merkel coi rifugiati è stata umana anche quando questo le ha creato problemi. La storia guarderà indietro e giudicherà al meglio le sue intenzioni e la sua umanità».
Una curiosità: lei usa molto la metafora del “massaggio”. Lo fa nel discorso ad Harvard parlando del personaggio di Orah, che vuole “ammorbidire” il figlio che nel servizio militare si è indurito. E poi a Gerusalemme, dove nomina il massaggio energico, che lo scrittore pratica alla propria coscienza contratta. Sembra un esperto, li sa praticare?
«Pratico yoga ogni giorno per mezz’ora e sono stato trattato da una meravigliosa maestra, Hannah Bahor, così sensibile e così esposta al dolore delle persone che sapeva toccare il punto giusto. Io spero di averlo imparato da lei e lo applico anche alla scrittura. Quando scrivevo di Orah sentivo il muscolo contratto in lei e dove suo figlio si era indurito. Io penso che tutta l’arte della scrittura sia un massaggiare i muscoli induriti della coscienza e delle emozioni, arrivare a posti che sono fossilizzati da paura, fatica, sospetto e odio».
L’importanza delle parole. Lei ne ripete alcune che hanno un potere paralizzante: “La situazione”, per esempio. Cos’è di preciso?
«La usano sempre palestinesi e israeliani dicendo “oh cosa possiamo fare, questa è la situazione”. Come se fosse un decreto divino. Invece noi creiamo la situazione e poi ne diventiamo vittime. Scrittori e giornalisti, storici e insegnanti quando parlano di questa “situazione” dovrebbero affrontarla da punti di vista diversi e descrivere la distruzione che porta. Non è facile perché è così bloccata, questa “situazione”, che è diventata davvero come una pietra. Ma è cattiva illusione pensare che sia uno “status quo” perché non può darsi in luoghi in cui esseri umani sono oppressi come i palestinesi da troppi anni; a un certo punto quella che ci sembra una “situazione” immobile ci esploderà in faccia e ci sorprenderà perché non lo credevamo possibile».
Uno di questi testi è un’intervista che le fecero a Parigi. Lei arrivò il giorno stesso dell’attacco al Bataclan. Racconta che uscì con sua moglie e fece una strana “promenade”, osservando come la paura trasformi le persone …
«Il successo del terrorismo è che deve fare poco per portarci agli istinti primitivi, aggressivi, territoriali che rendono le persone sempre meno attente alle sfumature. Il giornalismo può fare molto usando delicatezza, senza arrendersi a generalizzazioni e pregiudizi».
In vari discorsi lei parla della nascita di Israele con parole epiche. Altre volte è duro.
«Sono duro perché ricordo il miracolo che ha creato Israele e vorrei che tornasse un paese più umano, meno militante, in pace. Sì ho usato il termine “miracolo” che è religioso, ma io lo uso in modo secolare, perché era contro ogni previsione. Lì creammo una democrazia che si sta indebolendo perché non è vera se occupa il suolo di altri per così tanto tempo».
La pace in Medio Oriente, qualcosa è successo…
«Sono stato contento quando Netanyahu ha raggiunto l’accordo con gli Emirati, è molto importante avere questo dialogo. Ma dobbiamo fare la pace con i palestinesi. Solo allora cominceremo a essere radicati nel medio Oriente e forse avremo quel senso di casa… questa è la cosa più importante da avere, un senso di casa. Ora è più una fortezza e non ci sentiamo davvero comodi. Solo permettendo ai palestinesi di avere una casa permetteremo a noi di avere una casa».
La fede. Lei è ebreo non credente, ma nell’ultimo testo in raccolta, il “Diario Covid”, parla della pandemia come di una catastrofe biblica, un “diluvio”. Da scrittore, che rapporto ha con la Bibbia?
«Strettissimo. La leggo molto frequentemente e con due amici – per 32 anni, tre ore alla settimana – ne ho studiato ampie parti. Mi sento molto ebreo, il linguaggio della Bibbia è la base del mio ebraico moderno e le più belle storie sono tutte lì. Credere in Dio è un bisogno profondo e universale, lo trovi dovunque ci sia un uomo, ma io ho bisogno di sapere che non c’è un Dio, per me è importante credere che siamo soli in questo mondo e che il modo che abbiamo per renderlo tollerabile è essere sempre più umani e attenti agli altri, per capire che esperienza hanno della loro vita e così diventare più sensibili alle loro miserie e bellezze. Forse sono religioso in un altro modo, non so». —