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 2021  gennaio 30 Sabato calendario

Intervista a Roberto Vecchioni

Parole, parole, parole... Non è Mina, però, ma un altro dei padri nobili della patria canzone: Roberto Vecchioni. Sul prof si sta riversando un’ondata di neopopolarità come divulgatore a Le parole della settimana, il sabato sera di Massimo Gramellini. Una la spiega il prof paroliere: una via di mezzo fra una lezione e uno show, perfino con qualche giochino enigmistico come zuccherino per fare andare giù la pillola culturale. Successo sorprendente.
Vecchioni, è sorpreso anche lei?
«Sorpresissimo. Da molti anni ormai mi interessa la qualità e non la quantità del pubblico. Ma quando faccio un concerto in teatro e lo riempio o pubblico un disco e lo vendo so chi mi segue, il mio pubblico lo conosco. In tivù, no. E mi fa piacere che ci sia una minoranza, che poi tanto minoranza non è, diciamo una “medioranza”, che è attenta anche alla lingua».
Il trucco, se c’è?
«L’emozione. La linguistica è come la matematica: sembra fredda ma non lo è. Dietro ogni parola ci sono intrecci millenari che hanno trasformato le emozioni in suoni. Quando inizi a districare la matassa, fra il serio e il faceto, un po’ insegnando e un po’ giocando, nasce l’emozione della scoperta. Sa cosa diceva Einstein?».
Ne ha dette tantissime.
«A chi gli chiedeva quale fosse la scoperta più difficile da fare non rispose che erano, che so?, i buchi neri o i quanti o l’origine dell’universo, ma com’è nata la parola».
Insomma, lei è il maestro Manzi di oggi. Lui alfabetizzò gli italiani, lei li sta rialfabetizzando, cosa di cui c’è molto bisogno...
«Il paragone mi piace. Manzi era un uomo di grande dignità e meravigliosa dolcezza. Ma il merito è dei miei genitori, che mi hanno insegnato a non avere paura di essere un po’ guitto. Per divulgare, serve».
Però la cultura italiana più accedemica e togata la divulgazione l’ha sempre detestata...
«Credo infatti che molti linguisti in cattedra non siano esattamente miei ammiratori. So che sono molto più bravi e “tecnici” di me, ma credo che farsi capire sia importante. Pensiamo a come si sono arrabbiati tutti i soloni quando hanno dato il Nobel a Bob Dylan, come se la poesia e la canzone fossero due universi separati. Invece la parola magica è interdisciplinarietà. Bisogna mettere le parole nella storia, nelle arti, nelle scienze, in tutte le discipline, perché sono loro a cambiare le parole e le parole a cambiare loro».
A proposito: la parola di questa sera?
«Razza e razzista. Leggerò due brani, da Marco Aurelio e dal discorso di Pericle agli ateniesi. La tesi è che il razzismo è basato sulla paura».
In effetti, i razzisti fan paura.
«Ma la vera paura è la loro. Paura di guardarsi allo specchio e scoprire l’horror vacui che rimanda. Sono i razzisti che hanno paura anche se la fanno».
La parola che non commenterà mai?
«Forse “ignoranza”. Non saprei da che parte prenderla, anche perché c’è l’ignoranza voluta e quella non voluta, che è una tragedia. Di una cosa però sono certo: l’ignoranza è la catastrofe del mondo».
Intanto la lingua italiana non si sente troppo bene...
«Si usano queste twittate per risparmiare tempo. Ma è un gran peccato perché le sfumature sono importanti: più è sfumata la lingua e più è chiaro il pensiero. Vedi la scomparsa del congiuntivo».
Ogni riferimento a Di Maio è voluto?
«No, per carità. Mi sembra che lo usino meno tutti. Però è sbagliato, perché il congiuntivo ti obbliga al dubbio. E finché abbiamo il dubbio abbiamo anche la verità».
Fra lei e Gramellini il vero ingenuo chi è?
«Nessuno dei due. Fingiamo entrambi: lui di non capire, io di non sapermi spiegare».
Visto che va così bene in quello di Gramellini, un programma tutto suo lo farebbe?
«Certo. Più invecchio e più ho voglia di fare cose nuove».
È uscito un suo libro, «Lezioni di volo e di atterraggio» (Einaudi): in sintesi, cos’è?
«Le lezioni che facevo ai miei ragazzi, quando scoprivano insieme un modo di fare cultura nuovo. Giocavamo e giocando cercavamo di aprirci al non ovvio, al non letto e riletto. Cercare gli angoli, le sfumature, i salti logici. Il famoso pensiero laterale, insomma».
La domanda su Sanremo le tocca, oltretutto l’ha anche vinto nel 2011. Ha ragione Franceschini o Amadeus?
«Ma sono due mie amici!».
Risponda lo stesso.
«Allora mettiamola così: Sanremo senza pubblico non è Sanremo, perché Sanremo è l’emozione del momento e quelle mille persone lì dentro sono la cartina di tornasole dei milioni sui loro divani».
Allora ha ragione Amadeus.
«Però se non si può fare Sanremo con il pubblico allora è meglio non farlo. È come la scuola: i ragazzi vorrebbero andarci ma non possono. E allora è meglio lasciarla chiusa».