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 2021  gennaio 30 Sabato calendario

Intervista a Lamberto Pignotti

Lamberto Pignotti a suo modo è un grande. Dico “a suo modo” perché sono pochi coloro che ne conoscono il percorso artistico e i libri, alcuni davvero niente male, come Il Supernulla o Una forma di lotta che recava come sottotitolo “Contro l’anonimato dei prodotti in serie della civiltà tecnologica”, una specie di libertinage dentro la cultura di massa tra il 1962 e il 1964. Anni espansivi per l’Italia. Lamberto, poco più che trentenne, inaugurava la “Poesia Visiva”. Chi se ne ricorda? Di sé dice che ha sempre evitato il successo. Bisognerà chiedersi se sia invece stato il successo ad avere evitato lui. A 95 anni, li compirà in aprile, conserva un’aria divertita mentre mi accoglie in casa, insieme alla moglie Fernanda. A entrambi sorridono gli occhi, la sola cosa che si vede in questi tempi di pandemia. Lui sta alla sua storia come lei all’archivio che la rappresenta, pronta a correggere date, integrare qualche nome: «Sai non ho avuto paura di invecchiare, ma non c’è verso molte cose del passato tendono a scappare». Ho conosciuto Pignotti qualche anno fa a un anniversario del Gruppo 63. C’erano fra gli altri Nanni Balestrini, Angelo Guglielmi, Renato Barilli e c’era Lamberto, un po’ appartato. Pignotti è stato l’inventore della poesia tecnologica da cui è derivata, appunto, la poesia visiva. Siamo in qualche modo dentro i linguaggi della neo-avanguardia che mescolano fumetto, pubblicità, citazioni da romanzi e da fotoromanzi. Prima della Pop Art? «Diciamo in contemporanea. La poesia visiva e la Pop Art nascono ufficialmente nel 1963. Ma, diversamente da Warhol, la mia poesia proviene da una stagione culturale molto più depressa».Alludi ai nostri anni Cinquanta?«In quel decennio in Italia si discuteva soprattutto di neo-realismo, di impegno sociale, di post-ermetismo e di istanze religiose. Non si parlava di tendenze sperimentali. Alla fine della seconda guerra mondiale il discorso delle avanguardie era stato dato per esaurito. Invece era solo interrotto».Come lo hai ripreso?«Attraverso il potenziale espressivo proveniente da certo futurismo e dadaismo. A 16 anni su un muro di Firenze scrissi “Viva il surrealismo”. Ero in sintonia con scrittori come Marinetti, Palazzeschi, Tzara, Joyce, Breton, Pound. Dalla metà degli anni Quaranta ero entrato in contatto con le esperienze più avanzate nel campo delle arti visive e in quel periodo ho sperimentato le mie prove artistiche».Erano soprattutto disegni a matita. Simili a degli scarabocchi.«Non sono un pittore, mio padre lo era. A me piacciono le idee più che la loro realizzazione. In questo mi sento un futurista. Tu dici scarabocchi, per me era il tentativo di liberare la forma dalla rappresentazione».Ci credi all’artista libero?«Quello del sentirsi liberi è un concetto moderno.Piero della Francesca non si era certo posto un problema del genere. E poi sai, un artista più è libero e più è innocuo».Accennavi a tuo padre artista.«Era un post-macchiaiolo. Devo dire bravino, con un certo credito nell’ambiente fiorentino. Mio nonno tappezziere, rifiniva i tendaggi e le poltrone nei palazzi nobiliari. Mio padre, iniziato al mestiere, decise di abbandonarlo per dedicarsi interamente alla pittura. Sono nato a Firenze in via San Zanobi, nello stesso edificio abitava Emilio Cecchi, nella casa accanto Rossano Brazzi. Quando appariva, bello e narciso, le donne andavano in deliquio. Su quel tratto di strada aveva vissuto anche Mario Praz che bello non era, ma intelligentissimo e colto come nessun altro.Arrancava vestito di scuro, come un fiacre dell’Ottocento. Erano gli anni Trenta. Il fascismo mi colse impreparato».In che senso?«Andavo alle adunate vestito male e mi scacciarono con disonore. Mi rifugiavo a volte nello studio di mio padre, che era uno stanzone al Conventino, un ex monastero vicino il quartiere di San Frediano, diventato col tempo un centro attivo dell’antifascismo. Ogni tanto vi compariva Oriana Fallaci, che era allora una staffetta partigiana. Lì operavano lo zio e il padre. Si salvarono, come si salvò il mio, richiamato tre giorni prima di una tragica retata nazi-fascista a svolgere un lavoro per la Croce Rossa».E tu che facevi?«Leggevo, studiavo, frequentavo la Marucelliana, la biblioteca non era distante da casa. Avevo 17 anni e non sapevo cosa avrei fatto da grande. Quanto alla politica sono stato un renitente più che un resistente. Nel senso che sono scappato dalle grinfie della Repubblica Sociale che arruolava o fucilava. Quella fiorentina fu una vita sostanzialmente povera, c’era poco da mangiare. Mi rifacevo durante le vacanze estive andando da una zia che gestiva la pensione Regina a Forte dei Marmi. Qui pare che Thomas Mann un’estate scrisse Mario e il mago, un racconto ambientato proprio a Forte. Erano mesi felici. Andavo spesso al “Quarto platano”, un caffè frequentato da letterati e artisti. Potevo incontrarvi Carrà, Ungaretti, Gadda, Luzi, Montale e Longhi. Rividi poi Longhi all’università».Frequentavi i suoi corsi?«Sì, insieme a quelli di Devoto e Contini. Divenni infine borsista di Nencioni che mi presentò Giulio Preti di cui avevo letto Praxis ed empirismo, un testo che sarebbe stato importante per una certa mia apertura al neopositivismo e in un certo senso alla “poesia tecnologica”».Quanto a Longhi?«Fu maestro e stregone. Una volta a lezione disse che tutta l’arte italiana andava letta adespota. Alla fine mi avvicinai e gli chiesi che cosa voleva dire “adespota”.Rispose: senza padroni, anonima. Io non so se ci credesse davvero. Ma io sì. Ho sempre pensato che il gesto artistico è più importante di chi lo esegue».Quando lasci Firenze?«Nel 1968. Fino all’ultimo indeciso se andare a Milano, oppure a Roma. Avevo pubblicato le poesie Nozione di uomo e Una forma di lotta. Vittorio Sereni mi offriva buone prospettive per entrare in Mondadori. Ma non avevo voglia di chiudermi in un ufficio. Attratto da un certo spirito bohémien scelsi Roma. Le gallerie romane, la carbonara, Paese sera qualche scorribanda in Rai e una collaborazione con Lerici editore».Ti eri formato con il Gruppo 63.«Questo avvenne prima del mio approdo a Roma. Ho partecipato al Gruppo 63, ma in realtà, pochi mesi prima che quel gruppo nascesse, nel maggio del 1963 a Forte Belvedere, Eugenio Miccini e io demmo vita al Gruppo 70. Il Gruppo 63 sarebbe nato a Palermo nell’ottobre di quell’anno».Voi che cosa vi proponevate?«Guardavamo al moltiplicarsi di certi linguaggi giornalistico, burocratico, sportivo, commerciale, scientifico, politico e soprattutto pubblicitario – con grande interesse. Già alla fine degli anni Cinquanta vedevamo che la comunicazione pubblica si affidava ai mezzi diffusi di radio, televisione, giornali, manifesti murali, pubblicità, cinema. Tanto da far supporre che si era entrati in una specie di bilinguismo inconscio».Spiegati meglio.«Un bilinguismo inconsapevole, da una parte la lingua scritta, sorretta dalla tradizione letteraria. Quello che per noi era il nuovo latino. E dall’altro la lingua parlata, confezionata dai mezzi di comunicazione di massa e che noi definimmo il “nuovo volgare”. Quest’ultimo divenne il codice della “Poesia Visiva”».Molte delle vostre suggestioni passavano soprattutto attraverso il linguaggio della pubblicità.«È stato un potente vettore di aggregazione artistica.Del resto cosa vuoi, se la pubblicità fin dagli inizi ha saccheggiato la letteratura, perché non sentirsi in diritto di fare altrettanto? A mo’ di provocazione, ma neanche tanto, nei primi anni Sessanta proposi di diffondere la poesia verbale con gli altoparlanti negli stadi di calcio e quella visiva lungo le autostrade».Cosa sono la verbo-poesia e la poesia visiva?«Il tentativo di spingersi oltre la parola facendo ricorso all’immagine, senza però l’intenzione di insediarsi nel territorio delle arti visive, che già esisteva. Ci sentivamo liberi, irriverenti, anarchici, con un’inclinazione al nonsense e al gioco. Tutte componenti che derivavano dalle prime avanguardie.Eravamo ironici prima che il post-moderno scoprisse l’ironia. Ma siamo stati soprattutto autoironici. In fondo una poesia visiva non è un’arte da capire ma da fraintendere».Com’era il rapporto con il Gruppo 63?«Ho partecipato a quasi tutte le loro riunioni, fin dal celebre convegno palermitano del ’63, al quale mi invitò Luciano Anceschi. Andavo volentieri perché oltretutto si mangiava bene. Dai margini della mia postazione vedevo un irraggiungibile concentrato di intelligenze: Sanguineti, Pagliarani, Barilli, Arbasino, Eco, sotto la regia di Balestrini che sapeva trovare ottimi sponsor da Feltrinelli al barone Ajello. E buoni ristoranti».Sento una nota ironica.«No, no, erano bravissimi ad autopromuoversi. Non volevano limitarsi a svecchiare il mondo letterario, volevano – attraverso le università, le case editrici, i convegni, i giornali – occuparne il potere. Non ho nessun acredine nei loro riguardi. Anche perché per un certo periodo ci siamo scambiati belle esperienze. Però alla fine a James Joyce ho preferito Flash Gordon».Il vostro gruppo chi comprendeva?«Oltre a Miccini e me c’erano Giuseppe Chiari, Luciano Ori, Lucia Marcucci, Ketty La Rocca, Antonio Bueno, Sylvano Bussotti. Tra coloro che partecipavano ricordo Eco, Dorfles, Anceschi, Spatola, Vicinelli, Giuliani, Vlad, Fortini e tanti altri».Il Gruppo 63 guardava all’Italia industriale e voi?«Anche per noi l’industria era fondamentale. Ma non ci interessava l’industria della fabbrica e della ciminiera, ma l’industria come divertimento. Fu la nostra reazione alla società di massa con parole da vedere e immagini da leggere tratte dall’universo della comunicazione. Si parlò allora di “guerriglia semiologica”. Erano anche i tempi in cui Eco pubblicava Apocalittici e integrati ».A voi non interessava l’egemonia?«Non so che cosa pensassero gli altri ma personalmente non me ne fregava niente. Non credo che letteratura e poesia nascano ed esistano per scalare posizioni di potere. E poi quale potere?L’intellettuale, soprattutto italiano, che ha coltivato tale intenzione si è visto che fine ha fatto. No, meglio tenersi stretto il proprio insuccesso».Sei paradossale.«Mica tanto. Nessuno mi ha mai cercato per scrivere un bestseller o per fare concorrenza a Jeff Koons o Damien Hirst. Ma non ho mai avuto rifiuti. Nessun editore ha respinto un mio manoscritto, nessuna galleria ha rifiutato una mia opera. Semplicemente perché non li ho mai spediti. Ho sempre corso senza concorrenti, da solo. E quando un editore, una galleria, un museo hanno chiesto qualcosa di mio, solo allora mi sono fatto avanti. Ho fatto mostre in luoghi anonimi e altolocati come la Biennale e il Pompidou.Ma ho sempre svicolato dalle strade affollate e dai red carpet».Hai evitato il confronto.«Ho evitato le gare, ho evitato di stare sul mercato con il proposito omicida di annientare gli avversari. Io sono, come dissi in una mia poesia, l’anti-successo. Mi vedo come un essere remissivo e indipendente. Non mi metterò mai in gara con gli altri poeti, con i fini dicitori, con i letterati alla moda. Sono un apolide, ufficialmente non riconosciuto dalla grande e autorevole ditta “Arte & Letteratura”. Da qualche tempo sto rivalutando la figura del committente, che interagisce con l’artista, rispetto a quella dello sponsor, che spesso si limita a seguire un artista come fosse una quotazione di borsa».Sei un uomo che ha sposato il margine.«Ma se stai al margine, in qualche modo aspiri che il margine diventi il vero centro. Ho sposato mia moglie, mi basta. Nel mio cantiere c’è scritto “Lavori in corso”.Punto. Non faccio più proclami né mi illudo che l’artista indossi le vesti del provocatore. Siamo sempre più irrilevanti. Con buona pace di coloro che pensano che l’artista fornirà utopie utili e di pronto impiego, noto sommessamente che si è passati dall’infrazione all’inflazione artistica e letteraria. La massa è finita, andate in pace».