Robinson, 30 gennaio 2021
Biogrfia di Mario Pomilio
Estate del 1978: Mario Pomilio è in villeggiatura a Baia Domizia, il suo buen retiro, e da qui stilla pensieri lunghi al microfono della Rai. È circondato dai familiari, e il luogo non è, di per sé, tra i più rarefatti: il turismo di massa ha ormai invaso questo angolo di paradiso. Ma lui non se ne cura: «Come faccio a proteggere la mia quiete? Basta non appartenere, basta non partecipare». Erano passati tre anni dall’uscita del suo opus magnum, Il Quinto Evangelio, ristampato nel 2015 ( dopo una lunghissima eclissi) da L’orma editore, all’epoca uno straordinario caso editoriale tradotto in tutto il globo. Ne sono trascorsi quasi 31, oggi, dalla sua morte, e un secolo dalla sua venuta al mondo: nacque a Orsogna, in Abruzzo, il 14 gennaio del 1921. Narratore, saggista, critico letterario, poeta, si era laureato in Letteratura alla Normale di Pisa nel 1945 e perfezionato a Parigi e Bruxelles. Subito dopo la guerra l’incipit del suo percorso di professore di liceo, panni iniziatici che non avrebbe mai smesso. Da ragazzo aveva militato nel Partito d’Azione e in quello socialista: la sconfitta del Fronte Popolare nel 1948 cominciò però a corrodere le sue inaugurali saldezze politiche e culturali. Ne dà conto mirabilmente La compromissione, il quarto romanzo del 1965, ripubblicato adesso da Bompiani e che gli valse il premio Campiello: la crisi post-bellica dell’intellettuale di sinistra, incarnato da un giovane insegnante distaccato in provincia, alla periferia dell’Ideologia. Da lì il suo progressivo avvicinamento alla religione cattolica, senza l’abbrivio dell’apostasia: certi valori umanistici, certe tensioni etiche restarono a fermentare nella sua nuova e tradizionalissima escatologia. Nel frattempo Pomilio si era trasferito a Napoli, da cui non si sarebbe più separato: un amore contraccambiato. Da ricordare anche i suoi primissimi L’uccello nella cupola( 1954, premio Marzotto) e Il testimone (1956, premio Napoli).È il tempo di riscoprire questo grande scrittore cristiano ma in senso radicale, intriso dello spirito inesauribile dell’onda riformatrice del Concilio Vaticano II. Uno scrittore problematico, impegnato, che si è interrogato strenuamente sui dilemmi pubblici e le inquietudini private dei suoi contemporanei. Un osservatore compreso, non rappreso nel presente, in flussi di eventi non dimentichi di millenni di storia. Una voce pensosa del secondo Novecento, riottosa alle etichette e alle mode. La scrittura non è stata mai, per lui, un prodigio slegato dall’esistenza reale, ma lo sbocco di quella che definiva «l’esperienza bastarda di vita». Tralasciando i saggi critici e le raccolte poetiche, furono gli anni Settanta il suo apogeo, al netto della spiccata polarizzazione del periodo. Merito del suddetto Il Quinto Evangelio ( 1975), un classico istantaneo internazionale: il suo salto con l’asta, la sua vertigine creativa. Ci si contorceva ancora sulla “morte del romanzo” quando Pomilio irruppe sulla scena con questa mastodontica opera aperta e totale, un trattato polifonico e filosofico che non somigliava a nient’altro. Un magma che fondeva e confondeva, come sarebbe accaduto di lì a poco con Il Nome della Rosa di Umberto Eco, stilemi e suggestioni di ogni risma: teologia e testi apocrifi, saggistica e narrazione, leggende e tumulti interiori, filologia fantastica ed ermeneutica biblica. In coda vibra persino un testo drammaturgico autosufficiente, portato allora a teatro da Orazio Costa: un suo allievo, Domenico Galasso, vorrebbe farne un podcast radiofonico. Che volume alieno e fuori dalle regole, Il Quinto Evangelio, sulle tracce speculative di un mito andato perduto o nascosto chissà dove. La ricerca infinita e sublime, appagante in quanto tale, di un supplemento di rivelazione, di quei vangeli (classici) «da recuperarsi alle radici e, se non da rivivere, da riproporre di continuo». Da rileggere con occhi sgombri, di generazione in generazione. Come una propulsione dell’animo, ideale spinta soggiacente all’intera vicenda del cristianesimo. Altri avrebbero cavalcato la tigre, e invece Mario Pomilio lasciò scorrere otto anni prima di tornare in libreria con Il Natale del 1833 ( 1983), con cui vinse lo Strega. Romanzo breve, o racconto lungo, che segnò uno strappo stilistico rispetto all’Evangelio. Dal poema alla miniatura dal sapore elegiaco, con la quale evoca, sempre ibridando materiali eterogenei e rigenerati, il giorno della morte della moglie di Alessandro Manzoni, Enrichetta Blondel. E la sua ultima, omonima lirica incompiuta. Il protagonista è proprio l’autore de I Promessi Sposi, auscultato nella sua tragedia d’uomo al di là del totem. Un Manzoni straziato e tenebroso, costretto a tendere allo spasimo la fibra della sua fede, come un novello Giobbe. Perché Dio non esaudisce le nostre preghiere? Perché tanto dolore non redento nel mondo? Perché l’ostinata presenza di un padreterno assente? Una storia accesa con poche braci, catabasi in una terra desolata abbandonata dal divino e dai sogni ideologici di gioventù. Da qualche parte resistono, però, quinti vangeli impossibili. La verità, una società migliore o la potenza di una parola senza fine per dirla con San Paolo. Un’“utopia della direzione” anche in tempi malfermi. Come il suo Manzoni- specchio della maturità, Pomilio non ha mai «cessato di inseguire fili di grazia nel tessuto delle vicende umane». Scrutando il nostro stesso cielo, ma da un pianeta diverso.