Robinson, 30 gennaio 2021
Che ritmo l’Utopia
Se a Londra non siete mai stati in Denmark Street, la prossima volta che ci venite – coraggio, passata la tempesta ci sarà una prossima volta – ricordatevi di farci un salto: è la viuzza lunga poche decine di metri a due passi dalla fermata della Tube di Tottenham Court Road, tra Soho e i teatri del West End, che contiene il maggior numero di negozi di strumenti musicali di tutta la città, oltre a un pezzo rilevante della storia del pop, del rock e del punk. Negli studi discografici un tempo situati in questa stradina hanno registrato le loro canzoni i Beatles e Jimi Hendrix. Qui Elton John ha scritto Your Song.
E in un appartamento al numero civico 6 hanno addirittura vissuto per un po’ i Sex Pistols. Facendoci cominciare il suo nuovo romanzo, Utopia Avenue ( pubblicato in questi giorni in Italia da Frassinelli), David Mitchell ha scelto il luogo giusto. Ma ha anche scelto il tempo giusto: la scena si apre infatti nella Londra del 1967, quando la rivoluzione della musica è esplosa in pieno, scuotendo con le sue note il mondo intero, che dopo questi ritmi, queste liriche e questi personaggi non sarà più lo stesso.
L’autore pluripremiato di L’atlante delle nuvole, da cui è stato tratto l’omonimo film cult con Tom Hanks, Hugh Grant e Halle Berry, racconta la storia di quattro giovani squattrinati, riuniti per caso da un talent scout per sostituire una band famosa che si è sciolta. Dopo un esordio un po’ confuso, gli Utopia Avenue, come decidono di chiamarsi, Dean alla chitarra, Griff alla batteria, Jasper al basso ed Elf, unica ragazza del quartetto, alle tastiere, entrano in sintonia, firmano canzoni bellissime e la loro carriera prende il volo, portandoli fino a New York e alla West Coast, naturalmente tra droga, sesso e rock and roll. Strada facendo le loro vite personali si complicano, Dean si mette nei guai con donne altrui, Jasper con il proprio passato, Elf con uomini sbagliati, e incontrano alcuni dei più grandi musicisti dell’epoca, da Bob Dylan a Leonard Cohen, dai Beatles a David Bowie. Il romanzo è suddiviso in tre parti o meglio tre album, “Paradise Is the Road to Paradise”, “The Stuff of Life” e “The Third Planet”, a loro volta articolati in mezza dozzina di brani, ciascuno dei quali scritto da un diverso componente del gruppo. Trattandosi di canzoni immaginarie, non possiamo conoscerle, ma leggendo è un po’ come se le ascoltassimo: il libro è una ballata che ripercorre un itinerario classico, l’ascesa e la caduta di una rock band, qualcosa che appartiene al nostro immaginario collettivo.
Ma Mitchell non lo scrive come un monito, valido anche per la realtà odierna, sui pericoli o le illusioni della fama e della fortuna. Non vuole punire gli Utopia Avenue per il desiderio di rincorrere, come affermano sin dal nome, appunto un’utopia: cambiare tutto con la musica. Il suo messaggio, più gentile e sottile, è che niente può essere più naturale o più ammirevole di dare libero sfogo all’ambizione di distinguersi, di farsi sentire, di realizzare i propri sogni, anche a costo di perdersi lungo il cammino e a un certo punto conoscere le amarezze di un declino. Almeno, sembra dirci la colonna sonora, ci abbiamo provato. “Abandon Hope”, lasciate ogni speranza, s’intitola il primo capitolo o brano musicale del volume; “The Narrow Road to the Far- West”, la stretta strada per il Far- West, s’intitola l’ultimo: e la determinazione ad attraversare quell’angusto pertugio, un po’ come in un altro grande romanzo sulla musica, Alta fedeltà di Nick Hornby, è il vero significato dell’esistenza.
Nel mezzo, come in Cloud Atlas e in altre spericolate imprese del 51enne scrittore inglese, c’è un viaggio psichedelico: stavolta nella Swinging London anni Sessanta, evocata fin dalle prime righe: il «tipo con baffi, bombetta e l’aspetto di un agente di borsa» che ridacchia di un “capellone giovinastro”, un tè e una sigaretta in un coffee- shop, la coda di 40 minuti in banca per ricevere un bonifico con cui pagare l’affitto, il telefono in un bar per chiamare un’ambulanza, un nugolo di piccioni che s’alzano in volo su Soho Square, un borseggiatore imbroglione nella Denmark Street dell’incipit e altri mille particolari apparentemente slegati l’uno dall’altro, che di pagina in pagina ricompongono il puzzle facendo emergere l’immagine anzi la sinfonia finale. Il bar Etna all’incrocio fra D’Arblay e Berwick Street in cui lavora all’inizio il protagonista, fra studenti che amoreggiano, uomini in ghingheri che adocchiano fanciulle in cerca di un paparino e vecchi che si fermano per un caffè prima di chiudersi nel vicino cinema a luci rosse o in un bordello, è l’equivalente del «posto pulito, illuminato bene» del celebre racconto di Hemingway: un porto sicuro in cui trovare rifugio ma pure la zattera su cui partire per l’avventura della vita.