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 2021  gennaio 30 Sabato calendario

Intervista a Josef Koudelka

Josef Koudelka è uno che porta sempre a compimento i progetti che intraprende, fino in fondo, in modo radicale e senza la minima scorciatoia. Progetti che l’uomo che dice che «bisogna mangiare provini su provini» scava fino a tirarne fuori il meglio, senza lasciare il minimo scarto, indipendentemente dalla vastità. Per esempio Zingari, oppure Exils, affinati costantemente, sempre più precisi, fino a raggiungere quella condizione rara in cui l’autore, finalmente soddisfatto, si concede la possibilità di non toccare più niente. Progetti che accompagna con libri che costellano il suo percorso, che hanno conosciuto diverse versioni e sono quello che rimane e rimarrà. Fin dagli albori della fotografia, le rovine sono state uno dei soggetti maggiormente fotografati, ma con un approccio generalmente nostalgico e romantico, che viene da una tradizione pittorica. Il punto di vista di Josef Koudelka è molto diverso. Trent’anni di «avventura», come dice lui, per arrivare, dopo un’«autentica bagarre», a realizzare la foto giusta. Per fare il punto su questo percorso, 170 stampe e una mostra con 40 gigantografie, di 2,6 metri di lunghezza, e le altre 70 di 1,20 metri, accompagnata da un libro completo. Per lui, le rovine non sono un elemento decorativo. L’uomo che in quarta di copertina della versione più recente di Zingari (Contrasto, edizione compatta) dice di essere «sempre stato attirato da quello che sta finendo, che presto non sarà più» presenta oggi Radici, ambizioso percorso, tutto in formato panoramico e sempre in bianco e nero, intorno al Mar Mediterraneo.Trent’anni di viaggi e di riflessione sul paesaggio. Nel momento in cui la mostra sta per aprire (all’Ara Pacis di Roma), ha accettato di parlare con noi. È un evento raro, perché non ama parlare della sua opera, preferisce lasciare lo spettatore libero davanti ai rettangoli che gli propone. Ma parla, cercando come sua abitudine di trovare le parole precise, di questo momento della sua vita in cui sente il bisogno di mettere tutto in ordine, di strutturare per i posteri un’opera che non vuole assolutamente vedere trasformata o reinterpretata dopo la sua scomparsa.“Radici”, ancora una volta, è un progetto molto lungo.«Sì. Quasi trent’anni. Ho cominciato nel 1991, quindi fanno ventisette anni di inquadrature, perché l’ultima foto, scattata a Petra, risale al 2018. Ho cominciato a Delfi, ma non era ancora un progetto. Avevo una mostra ad Atene ed ero andato a Delfi, di cui conoscevo l’esistenza, per vedere com’era la realtà. E lo stesso anno andai anche a Beirut per valutare la proposta che mi era stata fatta di partecipare a un progetto collettivo sulla condizione dei quartieri centrali al termine della guerra».Da dove ti viene questo interesse per le rovine?«In realtà non è un vero e proprio interesse per le rovine. La motivazione di fondo, ancora una volta, era vedere in che modo l’uomo contemporaneo interviene sul paesaggio. E probabilmente, come in tutto il mio approccio al paesaggio, trovare la traccia dell’uomo.Andai a Delfi nel 1991: la prima foto di Radici, che è la prima del progetto e la prima del libro, è stata determinante. Sono tornato a Delfi numerose volte per cercare di scattare una foto migliore, ma non sono mai riuscito a fare nulla di meglio ed è restata la prima.Altrimenti, ma non so se c’entra qualcosa, mi viene in mente un aneddoto della mia infanzia. Io sono originario di un paesino in cui c’era una piccola biblioteca. Una volta presi in prestito due libri, uno sui cowboy e un altro sulla mitologia greca. Mio padre si arrabbiò per i cowboy: non voleva che giocassi con le pistole come gli altri bambini. Ma sull’archeologia non ebbe niente da ridire».Parli della traccia dell’uomo, ma non c’è nessuno in queste foto. Sono paesaggi deserti.«Ho sempre amato fotografare il paesaggio, ma non ero soddisfatto del risultato. E le persone nel paesaggio mi disturbano. Per apprezzare il paesaggio, ho bisogno di essere solo. Quando ero in Cecoslovacchia, all’inizio, avevo una Rolleiflex e quindi le mie foto erano quadrate. Per quei primi paesaggi, facevo una rinquadratura successiva, togliendo quello che non mi sembrava necessario. Erano i miei primi paesaggi, nel 1958».Qui tutti questi paesaggi sono delle panoramiche.Non c’è bisogno di rinquadrare…«Sì, in un certo senso è la macchina panoramica che inquadra, rinquadra. Ho cominciato a utilizzare la macchina panoramica per la missione fotografica della Datar (Delegazione interministeriale per la pianificazione del territorio e l’attrattività regionale), nel 1986. Anche lì, fu un po’ per caso. Un giorno, durante una riunione in un ufficio, vidi questa macchina su un tavolo, la presi in prestito per una settimana e la provai a Parigi. Capii presto che con quello strumento potevo fare delle cose nuove, delle cose che non avevo mai fatto prima e che non potevo fare con la mia solita macchina fotografica. Passando alla panoramica, ho raggiunto una tappa nuova nel mio lavoro. Ha anche rafforzato il mio interesse per la fotografia.È sempre nei miei pensieri. Quando non faccio foto, penso alle foto. La fotografia è la cosa più importante della mia vita. E ho avuto la grande fortuna di aver fatto quello che ho voluto e di aver visto e fotografato tanta bellezza. Alla fine, sono davvero contento della vita che ho vissuto. Quella nuova macchina, la panoramica, mi obbligò a cambiare, a riflettere in un altro modo, a ripensare le cose. In seguito, l’ho utilizzata molto, anche se contemporaneamente facevo altre cose. Ci sono delle panoramiche della missione fotografica Transmanche nel momento della costruzione del tunnel sotto la Manica, di aree industriali abbandonate, di cave, di paesaggi distrutti dall’estrazione del carbone in Boemia, del muro fra Israele e la Palestina. È un formato che amo, mentre a Henri Cartier-Bresson non piaceva, mi diceva: “Perché fai degli spaghetti?”. In un certo senso, ho sempre fotografato delle cose sul punto di scomparire, cose che stanno per diventare delle rovine o sono destinate a diventarlo. Henri (Cartier-Bresson) mi aveva detto: “Io preferisco i paesaggi coltivati”. Anche a me piacciono, ma mi piacciono i paesaggi che hanno vissuto, che sono segnati. Quando mi invitarono per la missione fotografica della Datar, feci fatica a fotografare i paesaggi francesi, che sono bellissimi e che apprezzo; ma la verità è che non erano una cosa che mi interessasse realmente, in fotografia. Fu nel Nord, con i paesaggi industriali diventati delle rovine, che trovai la mia direzione, il mio interesse».Questo formato panoramico lo utilizzi anche in verticale.«Corrisponde al modo in cui guardo. E ci sono dei luoghi che ti impongono il formato. Io guardo molto lungo la linea dell’orizzonte, l’estensione dello spazio, e la panoramica corrisponde bene a quest’ottica. Ma in certi luoghi una colonna, un albero, un elemento impongono la loro verticalità.Quello che cambia è l’inquadratura, non la composizione in sé. Sono l’inquadratura e l’obbiettivo che ti guidano. In quei paesaggi del giro del Mediterraneo non c’è cielo o ce n’è poco. È una scelta, ma è guidata anche dal fatto che sento di dover utilizzare la panoramica per focalizzarmi sulla cosa che mi sembra più interessante. Il fotografo vive nel mondo, reagisce a quello che vede, cerca di dargli forma nell’obbiettivo. Ma in realtà c’è anche un’influenza del mondo sul fotografo, è un’interazione. In Cecoslovacchia, un vecchio fotografo mi aveva detto: “Il fotografo fa il soggetto e il soggetto fa il fotografo”. Io rispetto la realtà, non la restituisco ma l’utilizzo. Ne prelevo la parte che mi interessa.Zingariè innanzitutto il mio sguardo sugli zingari. La stessa cosa vale per le rovine».Dunque “Radici” è cominciato a Delfi. E dopo?«Andai a Delfi perché mi dicevo che forse c’era una foto che mi aspettava laggiù. Sentii che c’era qualcosa che corrispondeva al mio interesse per il paesaggio e continuai. Immaginai dei percorsi possibili. Tutta l’Europa viene dal Mediterraneo, e scelsi di vedere TUTTO: andai in più di duecento siti per cercare le cose più belle e interessanti per me. L’importante era avere una foto bella di ogni luogo importante, in ogni Paese. E mi domandavo dove potevo trovarla. Non dovendo lavorare per nessuno, avevo la fortuna di fare quello che volevo, di uscire presto il mattino e andare a guardarmi intorno. Cercavo qualcosa che mi corrispondesse, che mi parlasse. Non mi vedo realmente come un fotografo, ma come un collezionista delle mie foto.PerRadici,non ero né archeologo né storico, solo fotografo. Anche se non sono più completamente ignorante e ho letto delle cose sull’antichità, non ero affascinato dall’archeologia, ma dalla distruzione del paesaggio accompagnata da una grande bellezza. E dopo i siti più conosciuti sono andato in molti luoghi, molti luoghi piccoli. Ho fatto un inventario. Sono tornato sette volte in Turchia per fotografare posti diversi. Quando torno in un posto è per vedere se riesco a ottenere una foto migliore. Perché la fotografia, per me, è sempre un’avventura e una battaglia con la realtà e non so mai come andrà a finire. Ogni bella foto è una vittoria. Allora ritorno, ritorno, cerco e quando arrivo alla conclusione che non sono in grado di fare meglio, considero terminato il lavoro. Tutti i Paesi sono lì, nell’unità offerta dalla panoramica.Tutti questi luoghi si modificano, cambiano, non soltanto per guerre o distruzioni, ma anche per il meteo, gli elementi, i terremoti. Anche se non era il mio obbiettivo, queste foto sono anche dei documenti. Dei documenti che sono il mio punto di vista, ma conservano questa dimensione di informazione. Risalgono a un momento preciso».Per “Radici”, hai cominciato in analogico e terminato in digitale. Cos’è cambiato con questo passaggio?«Mi ha facilitato le cose! Con la macchina panoramica si usano molte pellicole, una ventina al giorno. È pesante. Senza contare che diventa sempre più difficile far sviluppare queste pellicole, e addirittura trovarle. E poi costa molto, bisogna cercare soldi, e chi eventualmente ti finanzia si aspetta sempre che gli porti qualcosa, e che tu finisca entro una data che sta bene a lui. Quando utilizzavo le pellicole panoramiche Fuji dovevo portarmi dietro molti chili in più. Nel 2012 andai dalla Leica e mi fabbricarono una macchina fotografica panoramica digitale. Dopo quattro viaggi in cui mi ero portato dietro tutte e due, mi resi conto che ormai utilizzavo solo quella digitale, che mi piaceva di più. Il risultato è molto simile, perché l’obbiettivo mi dà esattamente la stessa prospettiva. La grande differenza, per me, è che non devo più portarmi dietro le pellicole. Non ho più bisogno di cercare soldi per la produzione e ho più possibilità. Alla fine, visto che non mi porto mai dietro il computer, lavoro tutta la giornata e dopo, fino a mezzanotte, guardo lo schermo sul retro della macchina fotografica ed elimino. Così controllo meglio quello che faccio».Tu hai sempre portato avanti più progetti contemporaneamente. Quali ti restano da completare?«Sto mettendo ordine. Sto creando una fondazione a Praga per conservare le mie opere, per evitare che finiscano disperse. Non è un’istituzione come per Henri Cartier-Bresson e Martine Frank, non è un luogo di esposizione, non ci sono dipendenti stipendiati. Si tratta di preservare, in tutti i sensi della parola, sotto la responsabilità di persone che conosco da molto tempo, amici con cui ho lavorato. È importante che dopo la mia morte non arrivi qualcuno a fare chissà che con le mie foto, a snaturare l’opera. Ho selezionato tutto con grande precisione, per tanti anni… Non voglio che ci sia dell’altro. La fondazione conserverà l’opera e anche una documentazione il più completa possibile. Mi do tre anni, se ci riesco, per terminare tutto quello che ho di importante da fare. Sento il dovere di donare ai luoghi che sono stati fondamentali per me: a Brno, in Moravia, da dove vengo, a Parigi ovviamente; e dovrò pensare a una donazione anche in Inghilterra, dove sono stato accolto quando ero in esilio, dove ho vissuto per dieci anni, dove ho avuto la mia prima grande mostra e un’importante borsa di studio. E anche in Slovacchia, perché gli zingari sono di là. Devo molto agli zingari. Un gruppo di sessanta stampe della serie sugli zingari sarà tenuto da parte per un futuro museo europeo dedicato a loro, se si riuscirà a trovare un luogo serio.Poi, visto che i progetti mi prendono sempre tantissimo tempo per portarli a termine, ci sono diverse cose ancora in corso. Mentre sviluppavo le serie in formato panoramico ho continuato a fotografare come prima, in rettangoli più classici.E voglio dare una forma a tutto questo. Zingari, Exils, tutto il lavoro in panoramica, sembrano opera di fotografi diversi. Ma io ho sempre funzionato in questo modo. Perché guardo tutto, tutto mi interessa. Fotografavo gli zingari quando lavoravo per il teatro, per esempio. Anche se il mondo contemporaneo mi interessa molto, faccio fatica a fotografare i miei contemporanei.Fotografare le persone è più difficile che fotografare il paesaggio, e i miei paesaggi contemporanei sono il mio contributo allo sguardo sul mondo di oggi. Trovo che la fotografia di paesaggio sia qualcosa di appassionante. Non è un caso che tanti fotografi, invecchiando, si dedichino alla fotografia di paesaggio. Per fotografare le persone bisogna correre senza posa, correre sempre dietro a qualcosa che stai perdendo. Con il paesaggio è diverso, devi aspettare tutto il tempo. Ho già fatto quattordici libri sul paesaggio e vorrei organizzare una grande mostra mescolando le diverse serie, rovine comprese. Perché le rovine non sono il passato, sono il futuro. Tutto quello che ci circonda un giorno sarà in rovina».(Traduzione di Fabio Galimberti)