la Repubblica, 30 gennaio 2021
Intervista a Giovanni Malagò
Giovanni Malagò, presidente del Coni: nella partita con il governo per l’autonomia dello sport chi ha vinto, alla fine?
«Ha vinto l’Italia, ha vinto lo sport.
Fra noi è stato uno 0-0. Anzi, visto il movimento che c’è stato in campo, un 3-3. Le nostre richieste erano superiori, ma prendiamo atto di quanto deciso».
Si riferisce alla mancata creazione, nel decreto sull’autonomia, di una Coni spa?
«È uno strumento giuridico necessario. Se sei un ente pubblico, resti ingessato nelle dinamiche di gestione. Non a caso le federazioni più importanti, e ora anche i ministeri, si sono create un veicolo privatistico per i loro servizi. La nostra richiesta non solo non era sbagliata ma doverosa».
Nel testo finale del decreto il contributo al Coni sale a 45 milioni. Ora si apre un’altra partita in sede di conversione in legge?
«Il mio auspicio è che il testo venga migliorato in modo congiunto. Se uno si muove solo nel proprio interesse per segnare il 4-3 poi rischiamo di finire 5-5: uno speco di energie che non aiuta nessuno. Di sicuro 165 dipendenti non ci bastano, dovremo avvalerci di qualcosa».
Come cambiano adesso le relazioni con Sport e Salute?
«Vi sorprendo: giovedì sera ho incontrato il presidente Cozzoli e si sono costruite le premesse per dialogare.
Finalmente è diventato chiaro che il Coni e Sport e Salute sono due cose diverse, uno è un ente pubblico autonomo e indipendente, l’altra una società per azioni partecipata dallo Stato.
Ritengo non solo giusto ma doveroso collaborare, ma senza assoggettamento. E non è vero che il Coni dovrà occuparsi solo della preparazione olimpica lasciando a Sport e Salute l’attività di base. Ad esempio, restiamo operativi sul territorio: i finanziamenti regionali, per legge, vanno al Coni. La realtà è che oggi abbiamo di nuovo le chiavi di casa: e dentro casa, nessuno può dirci cosa fare. Altrimenti siamo punto e a capo sul tema dell’autonomia».
Il Cio aveva pronto il provvedimento di sospensione sub iudice per l’Italia per ingerenze governative. Il governo ha sempre sospettato un bluff.
Però dopo una lunga resistenza all’ultimo giorno utile non è andato a vedere le carte.
«Il presidente del Cio Bach è stato lapidario. Chi ancora pensa che non saremmo stati sanzionati o non conosce il Cio, o non conosce Bach, o ha altri interessi. In Italia si sottovaluta sempre chi sta dall’altra parte: capita col Cio come con l’Unione Europea, pensiamo sempre che non succeda più di tanto, finché non siamo in un vicolo cieco. La realtà è che la politica spesso dimentica la gestione della realtà: le cose le capisci solo se sai anche come funzionano».
Un’inchiesta di Fabio Tonacci sul “Venerdì” di Repubblica, pubblicata ieri, sui Giochi di Milano-Cortina rivela: spese lievitate, sprechi, raddoppio di alcune sedi di gara, serissime perplessità del Cio. Lei è anche presidente della Fondazione Milano-Cortina.
«Ho letto con interesse. Non è mai esistito nella storia delle Olimpiadi e fatico a immaginare che esisterà in futuro un dossier come il nostro».
Ma alcuni impianti nuovi nascono già in perdita.
«Il 90% degli impianti è già esistente. Fare un piano più scarno di così, ripeto, è impossibile.
Altrimenti vale tutto: vado in Austria a fare bob, o il pattinaggio al Palasport a Roma. Per la prima volta un’Olimpiade è divisa in due città: Milano e Cortina, distanti e con in mezzo le montagne. E oltre a queste abbiamo coinvolto anche altre province, per fare di necessità virtù, come da “Agenda 2020”, la new norm del Cio. Ora fermiamoci. Altrimenti non è serio rispetto al dossier con cui ti sei candidato e che è stato votato. Poi ti dicono: ecco i soliti italiani che ci hanno preso in giro. La fondazione è privata, non ha un euro di contributo pubblico, non so che altro si deve fare».
Chi porterà la bandiera dell’Italia a Tokyo?
«Un’idea folle ce l’ho. Perché folle? Perché è un nome insospettabile.
Ma non ve lo dico: prima le elezioni del Coni, il 13 maggio. E poi lo sapete che in teoria ne sarebbero ammessi anche due, di portabandiera».
Si sente di escludere che possano essere ancora rinviate o cancellate le Olimpiadi?
«Al cento per cento. Bach è categorico e anche il governo giapponese. Non ci sono le condizioni tecniche per un rinvio: a febbraio 2022 ci sono le Olimpiadi invernali di Pechino».
Ma secondo i sondaggi l’80% dei giapponesi è contrario a farle nelle date stabilite.
«Dipende molto da come formuli la domanda. Se inizi a dire: se le rinvii l’immagine del tuo Paese è danneggiata, non puoi rifarle più avanti e perdi sponsor, avvii contenziosi con le televisioni… Come fai a dire rinviamole?».
E allo sport italiano quanto costerebbe l’annullamento?
«Un danno non quantificabile. Ci sono discipline che vivono di questo, lavorando per quattro anni, ora cinque, ci sono aziende che hanno investito. E poi i riflessi psicologici, con un contraccolpo devastante. Per molti atleti questa è l’ultima partecipazione della carriera».
Sta pensando a Federica Pellegrini.
«Lei è l’emblema di questa condizione. È come se avesse messo un chip nella testa dicendo: arrivo fino alla prima settimana di agosto. Sin lì do tutto. Ma non mi chiedete un minuto di più perché non sono in grado di tirarlo fuori».
Pellegrini può ancora puntare a una medaglia?
«Assolutamente sì. La sua carriera è imprevedibile: a Rio è andata come è andata, poi nel 2019 ai Mondiali di Gwangju ha vinto i 200. Ha un anno in più, ma la testa è di un’altra categoria».
A Rio l’Italia ha vinto 28 medaglie, 8 d’oro, 9° posto generale. A Tokyo?
«Faremo meglio. Ma il medagliere, così com’è, non esprime i valori reali: se hai vinto solo 6 ori sei davanti a un Paese con 5 ori e settanta medaglie totali. Non è giusto, non è normale, il Cio non vuole questo. La forza sportiva dei Paesi si misura realmente contando i piazzamenti degli atleti nei primi 8, quelli che prendono il diploma. Ne vedremo delle belle, comunque. C’è un incognita enorme, ricordiamocelo».
Il Covid.
«Qualche atleta guarito sembra non avere strascichi, altri ne hanno eccome. Poi se lo prendi poco prima sono dolori, rischi di non gareggiare o di farlo acciaccato. E poi senza pubblico i risultati sono molto alterati, e lì è una roulette: ti può andar bene o male. Noi abbiamo una incidenza di atleti che hanno preso il Covid mostruosa, molto più alta che all’estero».
Come lo spiega?
«Ho pensato tre cose: che facciamo tamponi in modo molto serio. Che lo sport è stato molto bravo nei protocolli. E poi per cultura tanti atleti vivono ancora con i genitori o persino i nonni».
Secondo lei gli atleti olimpici dovrebbero essere vaccinati prima degli altri?
«Non lo chiederemo mai e non lo vogliamo. Una persona anziana ha il sacrosanto diritto di essere vaccinata prima di un atleta di vent’anni. Ma forse una persona anziana può stare qualche giorno in più a casa senza uscire. L’atleta è obbligato a muoversi: non va a fare assembramenti, passa da aeroporti, spogliatoi, competizioni, contatti, per difendere la bandiera dell’Italia. La valutazione non deve farla lo sport ma la politica. Ci sono molti Paesi in cui già sappiamo che i nazionali sono in fase di vaccinazione».
Un anno fa lei invitava il calcio a fermarsi. Oggi il calcio è in crisi economica, vive di plusvalenze, chiede rinunce ai giocatori.
«Faccio grandissimi complimenti al calcio che ha avuto la forza di ripartire in piena pandemia: io ero scettico e hanno avuto ragione loro. All’epoca dissi loro di approfittare dello stop per affrontare problemi che sarebbero venuti a galla. In quel momento però avevano altre priorità».
A causa del Covid ci sono società che svaniscono, ragazzi che non fanno sport per un anno o due: lo scenario futuro è apocalittico?
«Un presidente federale pochi giorni fa mi ha fatto vedere dati allarmanti: in un anno ha perso il 50% dei tesserati. Quando ripartiremo una parte li recupereremo, una parte no. Tanti hanno mollato. Ma l’Olimpiade è il migliore spot per togliere i ragazzi dai computer e dai videogiochi e convincerli a tornare ad allenarsi».