la Repubblica, 30 gennaio 2021
12QQAFA10 Intervista a Don DeLillo
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Il nuovo libro di Don DeLillo, intitolato Il silenzio, si apre con una inquietante citazione di Albert Einstein: «Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta guerra mondiale si combatterà con pietre e bastoni». In uscita in Italia per Einaudi con un’ottima traduzione di Federica Aceto, questo breve romanzo è stato completato pochi giorni prima dello scoppio della pandemia, eppure trasmette già le angosce e lo sconcerto di fronte a un evento globale inaspettato: un blackout di tutti i computer nel giorno in cui si disputa l’attesissima finale del Super Bowl. «La vita può essere così interessante che dimentichiamo di aver paura», scrive DeLillo, ed è da questo concetto che si sviluppano i temi del libro, raccontati ancora una volta magistralmente attraverso personaggi vulnerabili e spaesati, due dei quali reduci da un disastro aereo. Giunto ad ottantaquattro anni, DeLillo ribadisce la sua ammirevole e assoluta originalità di sguardo, e alterna la riflessione sui temi contemporanei a quelli eterni: la geopolitica, la tecnologia digitale, la grafologia e soprattutto il senso della fine. Una volta dichiarò che «tutti i grandi plot si muovono verso la morte», e in questo nuovo libro, che la evoca sin dal titolo, racconta lo smarrimento di un gruppo di persone costrette ad assumere consapevolezza della loro caducità. Sin dai romanzi giovanili, DeLillo ha creato storie che generano ansia, a volte anche angoscia: è lo sguardo di un uomo lucido e introspettivo che si interroga costantemente sul mistero dell’esistenza, dialogando con un’educazione cattolica che risulta imprescindibile in ogni riflessione. «Tutto il mio lavoro è impregnato dal senso del mistero» mi dice nella sua casa dell’Upper East Side, «e la risposta finale, ammesso che ce ne sia una, è sempre fuori dal libro: tutti i miei libri hanno un finale aperto».
C’è chi dice che “una volta che si è stati cattolici lo si è sempre”.
«Inquello che scrivo parlo di mistero enon diocculto. Ogni volta che mi chiedo dadove nasca tuttociò ritengo che sia inevitabile pensare allamia formazione cattolica: sono un italo-americano del Bronx, figlio di abruzzesi».
Teilhard de Chardin ha scritto: «l’uomo ha ogni diritto di essere in ansia per il proprio fato fin quando si sentirà sperso e completamente solo nel mezzo della massa di cose che ha creato».
«TeilharddeChardin ècertamente uno dei punti di riferimento fondamentali,e questa frase riassume uno dei mieitemi costanti: riflettospesso sul rapporto tra uomo e tecnologia, sulle speranze e i problemigenerati daogni nuovo ritrovato».
Ritiene che la tecnologia porti inevitabilmente all’individualismo?
«Purtroppo sì, e questo ci costringe a riflettere sulla definizione di uomo comeanimale sociale.La modernità ècaratterizzata sempre più spessoda una lacerante solitudine».
Come è nata l’idea del libro?
«Tornandoin aereoda Parigi: un viaggioassolutamente tranquillo nel qualeingannavoiltempoguardando gli schermi, da cui provenivano informazionistandardcome l’altitudine e la temperatura. È stata proprio l’assoluta normalità di quel volochemi hastimolato apensare a un viaggio tragicocon le stesse informazioni diroutine. Mi è venuto allora il titolo, che ha finito per influenzare il senso ultimo della storia. Arrivato a casa, del tutto casualmente,lo sguardoè cadutosul testo di Einstein sulla relatività, e ho cominciato a riflettere sulle due cose insieme».
Einstein è studiato da Martin, uno dei personaggi.
«Riflettere sulle sue teorie significa riflettere sulle idee di un grandissimo scienziatoche non hamai perso il suoapproccio umanista».
Martin si interroga: «Guardo lo specchio e non so chi è la persona che ho davanti (…) La faccia che mi guarda non sembra la mia. Ma in fondo perché dovrebbe?».
«Martin parte dall’idea che quello chevediamonondefinisce e comprende totalmente larealtà delle cose.Per citareSan Paolo: “Adesso noivediamocomeinunospecchio, in manieraconfusa; allora vedremo faccia a faccia"».
Borges scrive che gli specchi sono abominevoli perché moltiplicano gli esseri umani.
«Conoscoquelpassaggio diBorgese rispondoche è un altro genio che è riuscito essere lucido e umanista allo stessotempo».
I personaggi sono newyorchesi: reagirebbero così se fossero di un’altra città?
«Sitratta di cinque personaggi che si trovanoa vivere una situazione eccezionale, condivisa però dal resto delmondo: in questoc’è qualche affinità conquello che abbiamo vissutoin questi ultimimesi. Non sannodoveandareehannobisogno diun rifugio. Ioparto quasi sempre daalcune immagini primadi sviluppare la storia e la psicologia dei personaggi,e hoimmaginato un’immaginechemisembrava surreale e cinematografica: le strade desertedi unametropolisempre affollata. Da questo punto di vista i personaggi del libro sono certamente newyorchesi».
Nei suoi libri si ha la sensazione che descriva eventi catastrofici con un misto di fascino e paura.
«È esattamente così: ci sono entrambi gli aspetti, perché ogni cambiamento, anche il più drastico porta con sé qualcosa di nuovo.
Perfino quando avvengono tragedie come i terremoti, io penso anche a quello su cui ci costringe a riflettere la natura: ancora una volta parliamo del mistero, e questo ci obbliga a porci le grandi questioni esistenziali».
Tutta la seconda parte del romanzo è composta da monologhi, come mai?
«Non saprei darti una risposta precisa salvo che così funziona la mia mente e che ogni mattina che mi mettevo a scrivere sulla mia vecchia Olympia di seconda mano sapevo di scrivere un romanzo che aveva una struttura libera».
Lei parte dalle immagini: che importanza ha avuto il cinema nella sua formazione?
«Ho passato tutta la mia gioventù al cinema, e i film sono stati importanti come i libri: ho divorato le opere di Kurosawa, Fellini, Antonioni e Bergman, che ha realizzato un film con lo stesso titolo del libro, e che tuttavia non ho voluto rivedere fin quando non l’ho completato».
Esistono libri o film che hanno rivoluzionato il suo modo di scrivere?
«Certamente il grande cinema americano degli anni Settanta, a cominciare da Coppola ma anche Wanda di Barbara Loden. Per quanto riguarda la letteratura direi che nessun libro mi ha cambiato come l’Ulisse di Joyce».
In questi giorni l’America sta cambiando pagina: quali sono le sue aspettative?
«La prima è quella di mettersi definitivamente alle spalle la malvagia anarchia che ha scatenato Donald Trump: uno dei risultati della sua pessima amministrazione è che viviamo in una condizione di costante e violenta incertezza. Ci sono moltissime ferite da sanare e credo che Biden possa essere l’uomo giusto: ha già fatto delle ottime scelte per la nuova amministrazione. Ma la domanda che purtroppo dobbiamo farci è: gli andrà dietro il Paese? Perché l’America non è soltanto New York, Chicago e Los Angeles, ma anche le grandi praterie e quello che gli abitanti delle metropoli chiamano con snobismo il centro del nulla.
Quel mondo è del tutto insulare e imprescindibilmente legato alla cultura primordiale dei pionieri, a cominciare dall’uso delle armi e della violenza».