Corriere della Sera, 28 gennaio 2021
Il ritorno di Putin a Davos
Vladimir Putin non aveva messo in programma di partecipare al World Economic Forum. Non quest’anno. Non dopo che dieci giorni fa il suo grande oppositore, Alexei Navalny, aveva fatto del proprio arresto all’aeroporto di Mosca una pièce in mondovisione sull’ottusità del regime che ha cercato di ucciderlo (fallendo). Non dopo che lo scorso week-end decine di migliaia di persone hanno protestato in strada, quasi quattromila sono state arrestate e molte di più pestate, eppure altre dimostrazioni sono già previste per sabato e domenica. No, questo non era l’anno in cui il presidente russo aveva pensato di prendere la parola all’evento globale più seguito. Neanche in videoconferenza. Come molti altri Paesi, la Russia ha le proprie ferite da lenire. Negli ultimi dodici mesi il rublo è crollato del 16% – fra i Paesi di G20 solo Brasile, Argentina e Turchia registrano fughe di capitali più intense – mentre i tassi d’interesse e l’inflazione restano alti malgrado un crollo dell’economia di quasi il 4%.
Invece all’ultimo il presidente russo si è convinto ad apparire, non annunciato prima, proprio nel giorno in cui Giuseppe Conte cancellava in quanto ormai premier dimissionario. Tema per il veterano di Mosca, entrato nel suo terzo decennio di potere: le sfide del terzo decennio del secolo. Ne è uscita una visione cupa, a tratti vagamente minacciosa. «La situazione potrebbe svilupparsi in maniera imprevedibile e incontrollabile, anzi sicuramente lo farà se niente viene fatto per impedirlo», ha scandito gesticolando in modo militaresco seduto a un tavolo di mogano. Un pensiero capovolto rispetto allo sguardo occidentale – Russia in ascesa con la Cina, Stati Uniti in declino – che rimastica le analisi liberal che escono da Harvard o dalla Columbia University sulle diseguaglianze in America o quelle di Stanford sul Big Tech per segnare il punto che a Putin preme di più: «Gli squilibri negli sviluppi sociali, economici e internazionali sono il risultato diretto delle politiche decadenti condotte dagli anni ‘80 del secolo scorso». Le tensioni fra potenze e superpotenze di oggi sono dunque, per l’uomo forte della Russia – colui che Navalny chiama «l’uomo nel suo bunker» – il risultato della globalizzazione a guida Usa degli ultimi 40 anni.
Niente di sorprendente, fin qui, per l’ex ufficiale del Kgb che definì la fine dell’Unione sovietica «la più grande tragedia geopolitica del ventesimo secolo». Rivelatore è semmai il suo fiuto per le difficoltà dell’America e dell’Occidente, nei giorni dell’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca seguiti all’assalto violento a Capitol Hill istigato da Donald Trump. «Assistiamo alla crisi dei modelli preesistenti di sviluppo economico – ha martellato Putin -. La stratificazione sociale (cioè la diseguaglianza, ndr) aumenta e provoca una polarizzazione acuta dell’opinione pubblica: il populismo, il radicalismo di destra e di sinistra e i movimenti estremisti stanno crescendo».
Se così l’uomo del Cremlino ha cercato di tracciare un’equivalenza tra le proteste in oltre cento città russe alla masnada trumpiana di Capitol Hill, lui stesso l’ha lasciato nel vago. Ha preferito far balenare giusto il sospetto. Ma ha messo in chiaro, al World Economic Forum, quali modelli secondo lui sono in ascesa e quali in declino. «Dal 1990 agli ultimi anni la Cina ha ridotto il numero di persone che vivono in povertà, con meno di 5,50 dollari al giorno, da 1,1 miliardo a 300 milioni» ha scandito Putin, leggendo le cifre da un foglietto mentre parlava a braccio. Poi un altro rapido sguardo al foglio, con un conto dall’anno in cui lui stesso prende le redini della Russia da un Boris Eltsin ormai minato dall’alcol: «Dal 1999 ad oggi il numero dei poveri in Russia si è ridotto da 64 milioni di persone a cinque», ha detto. «Invece negli Stati Uniti è salito da 3,6 a 5,6 milioni nel 2016» (cioè l’ultimo anno prima dell’avvento Donald Trump). E ancora: «Intanto c’è stato un aumento sostanziale dei profitti dei grandi gruppi internazionali, principalmente americani ed europei. Ma questi vanno solo all’1% delle persone più ricche: nei Paesi avanzati il reddito del ceto medio è fermo, mentre il costo della sanità o dell’educazione è triplicato».
La Russia attuale non è certo un campione di egualitarismo: secondo il World Inequality Database, un decimo della popolazione cattura quasi metà del reddito e oltre il 70% della ricchezza. Gli squilibri sono ai massimi di sempre – tutti i privilegi in mano agli oligarchi e ai loro amici – ma a Putin ieri interessava la declinazione politica. Secondo lui la diseguaglianza americana «toglie speranza nel futuro all’interno e ha riflessi negativi nel mondo». Il leader russo ne ha parlato al telefono con il suo nuovo omologo statunitense, Joe Biden. Insieme hanno concordato di prorogare il trattato «New Start» sul controllo degli armamenti. Un «passo corretto», si è limitato a dire Putin, «ma c’è un rischio di collasso dello sviluppo globale e di lotta di tutti contro tutti».
Un indizio per lui è nel ruolo dei gruppi del Big Tech, «che non sono solo giganti economici, perché ormai fanno concorrenza agli Stati: guardate cosa è successo negli Stati Uniti». Il riferimento di Putin è senz’altro alla censura imposta da Twitter e Facebook su Trump, dopo molti anni. Ma per l’interferenza dei troll russi nelle elezioni americane del 2016, o dei 95 milioni di visualizzazioni delle foto della sua villa da un miliardo postate da Navalny su YouTube, il presidente russo non ha avuto neanche una parola.