la Repubblica, 28 gennaio 2021
L’eredità di Livorno spiegata ai giovani in cinque mosse
Non si sono ancora spente le polemiche sul centenario del Pci che hanno riguardato soprattutto i testimoni e i reduci di quell’esperienza storica, i compagni e gli avversari di un tempo che fu.
Di nome Comunista e di cognome Italiano, nato a Livorno il 21 gennaio 1921 e morto a Rimini il 3 febbraio 1991, reciterebbe la lapide immaginaria di un cimitero inesistente. Ma se un trentenne di oggi, neonato ai tempi della fine di quel partito, volesse sapere che cosa è stato il Pci nella storia d’Italia faticherebbe a capirlo e, a costo di apparire didascalici, gli si potrebbe rispondere che ha significato soprattutto cinque cose.
Primo: una scuola di alfabetizzazione politica e di cittadinanza all’insegna di un’idea dell’impegno come partecipazione attiva e militante. Insieme con gli altri partiti, i comunisti hanno contribuito a superare il tradizionale distacco tra masse e potere, educando milioni di cittadini, disabituati dopo vent’anni di dittatura fascista, alla vita politica e al confronto civile. Per capire questo aspetto gli consiglierei la lettura di Una scelta di vita di Giorgio Amendola o le pagine di Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, laddove racconta la propria militanza comunista e il travaglio vissuto quando decise di abbandonare il partito a causa dello stalinismo.
Secondo: il Pci ha rappresentato una palestra di resistenza al fascismo sia sul piano armato con il movimento partigiano, ove ha pagato il tributo di sangue più elevato, sia sul piano culturale nel corso dei lunghi anni Trenta. Le riflessioni di Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere e quelle di Palmiro Togliatti nel Corso sugli avversari sono tra le letture più pregnanti sulle cause delle origini del fascismo come movimento di massa e ancora oggi un lucido strumento per comprendere i meccanismi di affermazione di nuovi plebiscitarismi.
Terzo: è stato una risorsa democratica nei tempi di crisi, le volte in cui è riuscito a dispiegare al massimo le proprie capacità di stringere alleanze. Il Pci, infatti, si è rivelato più utile alla nazione quando ha stretto accordi con gli avversari che non nei momenti in cui ha rivendicato una sua purezza identitaria, ossia quando è stato più «comunista italiano» che non genericamente di «sinistra». I due periodi davvero rilevanti della sua azione politica hanno coinciso entrambi con fasi di “solidarietà nazionale": quella con Palmiro Togliatti, dal 1944 al 1947, con l’elaborazione del “Partito nuovo” per la ricostruzione dell’Italia con le altre forze uscite dalla Resistenza; e poi quella con Enrico Berlinguer, dal 1973 al 1978, incui il Pci ha svolto un ruolo fondamentale nel determinare la sconfitta del terrorismo.
Quarto: ha costituito una comunità con i suoi riti di ingresso, di integrazione, di avanzamento, di disciplina, di marginalizzazione e di espulsione. Questo elemento ha svolto una preziosa funzione in alcuni passaggi delicati della storia d’Italia. Si pensi ai milioni di immigrati meridionali che, tra gli anni Cinquanta e Settanta, sono saliti al Nord.
Per costoro il partito ha costituito una casa di accoglienza, di dignità e di riscatto, dove le discriminazioni geografiche e persino razziste cessavano di contare perché, come recitava lo slogan, «il Nord e il Sud erano uniti nella lotta». Lo stesso si può dire per il sostegno offerto al movimento di occupazione delle terre contro il latifondo nel sud d’Italia e alle lotte dei contadini cui è stato insegnato a non levarsi il cappello davanti al padrone come racconta la storia di Emanuele Macaluso che ci ha appena lasciato.
Quinto: il Pci ha costituito anche un problema, a causa dell’ineliminabile questione della sua collocazione internazionale dentro il movimento comunista sorto dalla Rivoluzione russa. Questo fattore congenito ha svolto una funzione di blocco del sistema democratico perché ha alimentato un inesauribile generatore di alibi. Si pensi solo alla connivenza – un misto di indifferenza, indulgenza, irresponsabilità, ambiguità – che una parte delle classi dirigenti italiane ha mostrato nei riguardi della mafia oppure verso ampie frange del Partito armato o di quello delle stragi nel corso della cosiddetta “Repubblica dei partiti”.
Il posizionamento geopolitico del Pci è stato utilizzato per giustificare tali comportamenti giacché si ritenevautile mantenere queste dolorose spine nel fianco dei comunisti per arginare la loro azione, per disarticolare più in generale l’area progressista di cui quel partito era il fulcro e per favorire una gestione moderata del potere. Prova ne sia che nel nostro Paese è durato di più l’anticomunismo, declinato sotto forma di anti-piccismo (di destra, di sinistra e di centro) che quel partito.
La storia del Pci non ha avuto eredi. Forse con un eccesso di zelo e di superficialità si è preferito buttare con l’acqua sporca – il rapporto con il movimento comunista internazionale —anche il bambino, ossia l’idea di un grande partito organizzato e popolare. Così il Pci è morto, ma non ha avuto una degna sepoltura e perciò continua ad aggirarsi tra noi come un fantasma senza pace.