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 2021  gennaio 28 Giovedì calendario

Bruno Arpaia ha scritto un libro sull’amico Luis Sepúlveda

Il libro di Bruno Arpaia dedicato al suo amico di decenni di scorribande ludiche e letterarie, Luis Sepúlveda, inizia dalla fine. Dall’ultima festa di compleanno, nell’ottobre del 2019, organizzata in Italia per lui. «Era visibilmente felice e commosso, però chi lo conosceva bene intuiva dietro il suo sorriso un’ombra di stanchezza o, chissà, di preoccupazione». Eppure, «i suoi abbracci e le sue risate non avevano perso nulla del calore e della forza che emanavano».
L’epilogo è noto, racconta lo scrittore di Tempo perso, nel suo memoir da oggi in libreria per Guanda, Luis Sepúlveda. Il ribelle, il sognatore. Gli ultimi viaggi in giro per il mondo, il ritorno nel suo buen ritiro di Gijón, nelle Asturie. La sensazione di malessere, di freddo intenso, finché la febbre lo fa delirare e si rende necessario il ricovero. «Non sarà mica quel maledetto virus?». Sì, lo era. «È stato il primo malato di Covid nelle Asturie – racconta Arpaia – è stato particolarmente sfortunato». Fu separato da sua moglie Carmen, l’amore di una vita (negativa al secondo tampone). Morì il 16 aprile dell’anno scorso: intubato, non ebbe neanche la possibilità di guardare in faccia la morte.
Aveva paura di morire Lucho, come lo chiamavate voi, i suoi amici?
«Ne aveva certamente, come chi arriva a una certa età, e capisce che non gli resta molto da vivere. Ma lui la morte l’aveva un po’ sfidata in gioventù e, certo, morire così... senza più prendere conoscenza, senza sapere cosa stesse accadendo. Era un periodo, peraltro, in cui i medici facevano ancora tanti errori, non si erano ancora scoperte le cose che sappiamo oggi sul coronavirus».
Il suo è un libro su un’amicizia.
«Certo, la mia e la sua, ma anche in generale. Lui era il fulcro attorno a cui si riunivano tanti scrittori, il ponte tra tanti amici. E per lui l’amicizia era sacra. Aveva un dono particolare: capiva subito con chi poteva avere delle affinità».
Quanto era profonda la vostra intesa?
«Fin da subito abbiamo cominciato a chiacchierare, a dirci cose che di solito richiedono molto più tempo per emergere. Quando capiva che eri uno dei suoi, non aveva remore».
A un certo punto, lei è diventato anche un personaggio dei suoi romanzi: il commissario Arpaia.
«A dire il vero in questo l’aveva preceduto Paco Ignacio Taibo II, che mi aveva ritratto come un fotografo ambulante segnato dalla vita, in un vecchio libro, La bicicletta di Leonardo. Ci era finito dentro, come personaggio, anche il cubano Leonardo Padura Fuentes, nelle vesti di un mago».
Era una sorta di gioco?
«Luis aveva anche preso in prestito il detective di Paco Taibo, Héctor Belascoarán, e lo aveva messo nel suo libro, Un nome da torero. Era una cosa piuttosto goliardica, usare i nomi degli amici».
E Paco Taibo non ebbe nulla da ridire?
«Restituiscimelo tutto intero, disse a Lucho. Ma a quel punto il personaggio era già messo male, cieco a un occhio e zoppo. Così lui poté dire soltanto: non gli far succedere nient’altro».
Si è divertito a diventare il personaggio di un romanzo?
«Sì e mi sono sentito anche un po’ onorato, del fatto che uno come Sepúlveda pensasse a me o a Pino Cacucci per popolare di personaggi un suo libro. Era un segnale di grande amicizia, di stima, di goliardia».
C’era un luogo dove Sepúlveda si sentisse a casa?
«Per tutto noi, lui era il grande viaggiatore. Ma diceva sempre di essersi mosso per lavoro, per necessità o perché lo avevano cacciato. Scelse Gijón perché il paesaggio gli ricordava il Sud del Cile, ma soprattutto per poter parlare spagnolo, usare i vezzeggiativi della sua lingua, quando andava a comprare la frutta».
Come sappiamo, Sepúlveda fu arrestato e torturato, costretto a lasciare il Cile al tempo di Pinochet, prese parte a movimenti di guerriglia in America Latina, si imbarcò su una nave di Greenpeace. Una vita da romanzo. E una storia da romanzo fu anche il rapporto con sua moglie, è così?
«Assolutamente, sembra Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del colera. Lasciarsi in quelle condizioni (arrestati dalla polizia di Pinochet e dati per morti, n.d.r), ritrovarsi e mettere su un focolare domestico in quel modo, tanti anni dopo. Lucho e Carmen Yáñez avevano avuto un primo figlio e poi si erano separati al tempo della caduta di Allende. Lei era riuscita ad andare in Svezia, dove aveva avuto un altro figlio. E anche lui aveva avuto altri tre figli da un’altra compagna. Poi sono tornati a vivere insieme a Gijón e si sono addirittura risposati».
Sepúlveda non ha mai perso l’ironia.
«La sua battuta più bella fu quella sui destini della sinistra: compagni non vi preoccupate che andremo, di sconfitta in sconfitta, fino alla vittoria finale».
Il motivo del suo successo?«ì
«L’apice del successo è arrivato con la Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, che lo portò ad avere un pubblico dai cinque ai novant’anni. Aveva una grande capacità di lavorare sulla scrittura fino a renderla apparentemente semplice, di una leggerezza calviniana. Era capace di dire cose profonde in maniera molto semplice».
Sono rimasti inediti nel cassetto?
«Lui aveva un ultimo progetto, il romanzo Agua Mala, ambientalista, sugli allevamenti intensivi di salmone che distruggono i mari. Ma non aveva ancora cominciato a scriverlo. Non so se Carmen abbia trovato qualcosa tra i suoi appunti, ma non credo».