Medusa, 28 gennaio 2021
Gli ippopotami di Pablo
Pablo Escobar pensava che importare con la forza quattro ippopotami dall’Africa fosse una buona idea, e trent’anni dopo, nelle paludi a nord di Bogotà, i ricercatori locali stanno cercando di contenere l’esplosione demografica del mammifero più letale al mondo (gli ippopotami uccidono più dei leoni, delle tigri, degli orsi). Se il tasso di fertilità di questi ippopotami restasse invariato – e senza interventi esterni non dovrebbe, visto che quella fetta di Colombia è un paradiso, cibo dappertutto e nessun predatore – tra vent’anni ci potrebbero essere 1.400 esemplari.
Nel 2009 l’uccisione di un ippopotamo (che ci ricorda quel saggio di Orwell, Sparando all’elefante ripubblicato da e/o edizioni) ha portato alla sollevazione popolare, perché l’animale è diventato la mascotte della regione, amato da grandi e bambini; in aggiunta, è stata emanata una legge ad hoc: uccidere un ippopotamo in Colombia è illegale. Si è passati allora all’idea della castrazione, ma: il maschio di ippopotamo presenta quelli che la scienza chiama “spatially dynamic testes”, testicoli dinamici insomma, che al bisogno si nascondono nel canale inguinale; i genitali femminili poi, precisa Sarah Kaplan del Washington Post, per ricercatori abituati ad altre faune “sono ancora più difficili da trovare”. Il tasso di castrazione, a oggi, è di un capo all’anno, e con grande fatica. Per limitare lo sconquasso economico, ecologico e sociale scatenato da un migliaio di ippopotami alloctoni allo stato brado, si dovrebbe passare a 30 castrazioni all’anno: un obiettivo impossibile, considerato il budget dell’agenzia ecologica di David Echeverri Lopez. Come nel saggio di Orwell, l’unica soluzione sarà quella più dolorosa.