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 2021  gennaio 27 Mercoledì calendario

Il Times, i tweet, la partigianeria e i licenziamenti

Lauren Wolfe ha il tipico profilo della giornalista impegnata e lavora(va) al New York Times, il giornale liberal per eccellenza, che in questi anni ha rafforzato la sua posizione e i suoi abbonamenti anche in virtù della vigile copertura di un presidente come Donald Trump, insofferente ai rituali della democrazia e profondamente ostile alla stampa. Ma quando Lauren, il giorno dell’insediamento di Biden, vedendo le immagini dell’aereo del presidente eletto atterrare alla Joint Base Andrews diretto a Washington, ha scritto «ho i brividi», su di lei si è scatenato un attacco social da destra non diverso da quelli che certa sinistra ha lanciato nei mesi passati contro chi sosteneva posizioni «non ortodosse».
E il quotidiano – con il quale Wolfe aveva una collaborazione, non un contratto fisso – l’ha licenziata. Non «a causa di un singolo tweet», specificano, ma senza aggiungere dettagli. A luglio dal Times se n’era andata, quella volta volontariamente, Bari Weiss, giovane voce centrista, stufa degli attacchi, compresi quelli di molti suoi colleghi, ricevuti su Twitter. Forse Lauren è (era?) tra chi pensa che la cancel culture non esiste, e scopre invece che non fa differenze tra destra e sinistra.
Al New York Times deve esserci una certa tensione rispetto alle accuse preventive di partigianeria nei confronti della nuova amministrazione. Il quotidiano è atteso al varco per sapere se mostrerà nei confronti di Biden la stessa severità usata nei confronti di Trump (a Fox News già dicono che i media liberal coprono le bugie di «Santi Joe e Kamala»). Ma licenziare una giornalista per un tweet inappropriato? Negli Stati Uniti il caso ha riaperto la discussione sulla «polizia del pensiero» di Twitter, e su come l’onda dell’indignazione decida chi può parlare e chi può dire cosa: con alcuni interessanti cortocircuiti che dimostrano quanto il dibattito sia ingarbugliato. Tra i difensori di Wolfe Alyssa Milano, attrice attivista e paladina del #metoo, che ha twittato l’hashtag #rehireLauren. Mesi fa Milano aveva scritto che la cancel culture è un’arma della destra, non degli ultrà liberal, ora lancia un «cancelletto» chiedendo ai suoi 3 milioni e mezzo di follower di fare pressione sul Times e subito molti di loro passano alle minacce: riprendete Wolfe o cancello l’abbonamento (Wolfe stessa ha pregato di non farlo).
È un fatto che la giornalista abbia violato una policy del giornale, quella di non esprimere opinioni personali sui propri account social. Ma la punizione è proporzionata alla violazione? «I giornalisti dovrebbero essere giudicati dalla correttezza del loro lavoro (...) – ha scritto sempre su Twitter Wesley Lowery di 60 minutes —: Risposte vigliacche e reazionarie all’indignazione online sono imbarazzanti e minano l’integrità dell’istituzione giornalistica più di qualunque cosa abbia twittato un membro dello staff». E ancora: perché una giornalista come Rukmini Callimachi che ha commesso degli errori clamorosi nel pluripremiato podcast Caliphate, è stata solo assegnata a un altro desk?
Dicendo che «per rispetto delle persone coinvolte», non intende «commentare ulteriormente» il Times non chiude il caso. «Avrei voluto scrivere, non che si scrivesse di me», dice ora Lauren.