la Repubblica, 27 gennaio 2021
Ecco perché lo sport in Italia non è una priorità
Molto rumore per nulla. Scomodiamo pure Shakespeare che di commedie se ne intendeva e anche di bisbetici domati. Aggiungiamo: bene così. Bene che il Cio, il governo dello sport mondiale, oggi non abbia alcun pretesto per dare una sanzione all’Italia olimpica. Tranquilli: a Tokyo (se ci saranno i Giochi), la nostra squadra avrà inno e bandiera tricolore. Il Coni, inteso come movimento dello sport azzurro, gli atleti e i tifosi, non se lo sarebbero meritato.
Perché è stata sempre una faccia bella del Paese, anche quando il Paese non era molto dignitoso. Perché fin dalla sua prima volta l’Italia è stata sempre una partner fedele dei Giochi, tanto da divorziare nell’80 con il proprio governo per riaffermare la sua autonomia e la libertà di andare a Mosca.
Altri Paesi obbedirono al boicottaggio, voluto dalla politica, il Coni di Carraro no. Male che sia stata una guerra di poteri, incomprensibile ai più. «Un romanzo», secondo Malagò. O forse un pasticciaccio: si parlava di asset, di proprietà immobiliari, di impianti sportivi, di palazzi. Giovanni Malagò, presidente molto appassionato di sport, riesce ai supplementari, tra pandemia e crisi di governo, nell’ultimo consiglio dei ministri a ottenere all’alba un decreto-legge (ma non potevano tirarlo fuori dal cassetto prima?) che garantisca l’indipendenza del Coni. Come e dove, si vedrà in Parlamento, in sede di conversione del decreto. Malagò si è molto agitato in questi ultimi mesi, anche troppo, nel triplice ruolo di vittima, carnefice, salvatore, ma lui è fatto così, nella sua sincerità ci crede veramente, con una giacca si denuncia e con un’altra subisce la denuncia. Ha mosso le sue truppe, ha lamentato ingerenze, ma su una cosa ha avuto ragione.
«Con quattro righe della finanziaria hanno cancellato 70 anni di Coni». Giusto fare le riforme (nel 2018), cambiare e innovare (magari con qualche donna?), ma a chi ti ha fatto viaggiare bene almeno dici grazie e addio, con riconoscenza. Adesso che il Coni ha ridefinito i confini tutti si dicono soddisfatti: da Spadafora, ministro sport, a Cozzoli, presidente di Sport&Salute che però il 12 gennaio nell’audizione al Senato aveva dichiarato che «si poteva trovare una soluzione senza decreto-legge» mentre Franco Carraro sottolineava che «stabilire chi fa che cosa, è un ruolo che il Parlamento aveva assegnato al governo, ma il governo ha deciso di non decidere e adesso qualcuno deve farlo».
Insomma, una riforma incompleta. E per correre si sa, hai bisogno di due scarpe. Sarà questa (forse) la prima notte di pace tra i diversi orgogli e voglie di comando sullo sport italiano. C’è chi pensa che Malagò abbia portato a casa in un momento di tempesta un successo importante non tanto nella conquista della collina, ma nel riaffermare di essere un generale con il pieno controllo del suo esercito. E di aver piegato all’ultimo secondo non tanto la resistenza della controparte, ma la sua sciatteria e indifferenza. E c’è chi come Gianni Petrucci, presidente del basket, ringrazia ma parla di «minimo sindacale, vittoria di tappa». Una cosa però si è capita: lo sport in Italia non è una priorità. E non ha una politica, ma solo tifosi. A come riaprire palestre, piscine, impianti non ci pensa nessuno. A come far riprendere l’attivista sportiva agli adolescenti chiusi in casa da un anno nemmeno. Non parliamo di come riorganizzare l’Italia e le società sportive, con il virus che ha svuotate le casse.
Occupiamoci dell’inno, dai.