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 2021  gennaio 27 Mercoledì calendario

I governi dei presidenti

Un’autentica «invenzione» del Quirinale: capitò dieci anni fa, mai nessun Presidente della Repubblica era stato così interventista e dopo allora mai nessun altro lo sarebbe stato altrettanto. In una settimana, una sequenza memorabile: è il 9 novembre 2011 e dopo un ottovolante durato mesi lo spread sale ad una vetta inesplorata, quota 574 punti. Il Rendiconto Generale del Bilancio dello Stato alla Camera viene approvato ma soltanto con 308 voti: il segno che la maggioranza non c’è più. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sale al Quirinale e preannuncia le sue dimissioni. Il Capo dello Stato Giorgio Napolitano nomina Mario Monti senatore a vita e pochi giorni dopo gli affida l’incarico di formare il governo. Napolitano aveva «preallertato» Monti in un colloquio di cinque mesi prima, mentre nei giorni precedenti aveva preparato la soluzione «commissario», convincendo in altrettanti colloqui, sia Silvio Berlusconi che il leader del Pd Pier Luigi Bersani. In queste ore una delle crisi dall’esito più incerto degli ultimi anni ripropone un tema cruciale: il ruolo dei Presidenti della Repubblica nella soluzione dei garbugli politici che seguono la caduta dei governi. Un ruolo che, in diverse circostanze, è stato interpretato da alcuni Presidenti con un protagonismo talmente marcato da risultare decisivo nella soluzione delle crisi: cambiando il corso degli eventi, talora hanno cambiato anche la storia del Paese. Certo, ogni Presidente ha interpretato il ruolo secondo la propria sensibilità, in quella banda di oscillazione che fu definita una volta per tutte da un giurista come Giuseppe Maranini che vide nella Costituzione la possibilità per il Capo dello Stato di vestire i panni del «funzionario decorativo», oppure quelli di «un magistrato politico attivo nella politica contingente». Si deve ad un’autentica invenzione del presidente liberale Luigi Einaudi – e ad una sua «forzatura» – la nascita del primo «governo del Presidente» nella storia della Repubblica. Era il 1953, si erano appena svolte le elezioni politiche, la Dc non era riuscita a far scattare il premio previsto dalla legge truffa, ma assieme agli alleati laici aveva una salda maggioranza. Eppure l’astensione degli alleati e le divisioni interne alla Dc producono uno scenario sbalorditivo: Alcide De Gasperi si presenta alle Camere con un nuovo governo e non ottiene la fiducia. Un’umiliazione per un personaggio che era carismatico già per i contemporanei e che il tempo avrebbe consacrato come il primo statista nella storia della Repubblica. Con un primo segno di resistenza alla nascente «partitocrazia» il capo dello Stato, il liberale Luigi Einaudi, decide di affidare l’incarico ad un personaggio al di fuori della nomenclatura democristiana: il vercellese Giuseppe Pella. E lo fa con una procedura irrituale: il giorno di Ferragosto del 1953 Einaudi convoca Pella nella casina del Vignola a Caprarola, dove si trovava in vacanza, senza ricorrere alle rituali consultazioni. Vittorio Gorresio, grande firma de La Stampa sopraggiunto nel paesino del Viterbese, chiede il perché di quella procedura ed Einaudi gli risponde: «La Costituzione non parla di consultazioni e si affida al criterio del Capo dello Stato». Un battesimo che avrebbe fatto scuola per i Presidenti più interventisti. Il democristiano Giovanni Gronchi si guadagnò il soprannome di «Peron di Pontedera» anche per l’investitura che diede nel 1960 al suo amico Fernando Tambroni, destinato però a naufragare in pochi mesi dopo l’«insurrezione» di Genova per la celebrazione del congresso dell’ Msi. Altrettanto irruenti ma più felici nell’esito gli incarichi a sorpresa escogitati dal socialista Sandro Pertini. Eletto nel 1978, dopo due «assaggi» spiazzanti (gli incarichi esplorativi a Ugo La Malfa e a Bettino Craxi), nel 1982 Pertini rompe un tabù: palazzo Chigi come feudo della Dc. L’ esplosione dello scandalo della loggia massonica P2 stava portando a picco la legislatura e il primo presidente della Repubblica socialista, anziché sciogliere le Camere, affidò l’incarico di formare il governo al repubblicano Giovanni Spadolini, che ottenne la fiducia del Parlamento. In quella occasione l’interventismo del Capo dello Stato scongiurò una crisi di sistema e portò per la prima volta nella storia della Repubblica un non-democristiano a palazzo Chigi. Oscar Luigi Scalfaro, tra il 1992 e il 1995 pilota da par suo ben tre crisi molto delicate. Nell’estate del 1992 si incarica di dire al suo amico Bettino Craxi che non può dargli l’incarico di formare il governo per i primi boatos di Tangentopoli, ma nella rosa di tre nomi indicatagli dal segretario del Psi, sceglie il suo preferito, Giuliano Amato. Ma Scalfaro riesce nell’impresa dopo aver tagliato fuori il principale «concorrente», Claudio Martelli: con un giro di telefonate, il presidente semina zizzania tra Craxi e il suo delfino, a quel punto diventato improponibile perché oramai inviso al leader socialista. E un anno dopo, con la lira a picco, Scalfaro di fatto «crea» il Ciampi politico. Il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, dopo aver presentato una lettera di dimissioni, sta seriamente pensando di lasciare il suo prestigioso incarico, quando il 26 aprile 1993 riceve la telefonata del Capo dello Stato che gli chiede un colloquio urgente: «Governatore, le intendo conferire l’incarico di formare il nuovo governo». Ciampi è sorpreso e (inizialmente) incerto. Accetterà. Una leggenda mai del tutto chiarita circonda un altro passaggio delicato della presidenza Scalfaro: nel dicembre del 1994 il cavalier Berlusconi, al suo primo «giro» da presidente del Consiglio, è costretto a dimettersi ed è convinto proprio dal Capo dello Stato a passare il testimone al suo ministro del Bilancio Lamberto Dini. Un altro «governo del presidente».