Corriere della Sera, 26 gennaio 2021
Le adolescenti degli anni Ottanta in un libro di Teresa Ciabatti
Se c’è un’informazione sulle persone che non mi convince mai è quella che riguarda la loro età. Perché è evidente, no? Che la vera differenza la fa l’età-ambra in cui si paralizza la farfalla che potevamo diventare o che a un certo punto siamo diventati ma a cui non riusciamo a rinunciare o che magari non diventeremo mai, eterni bruchi in attesa di una trasformazione che però ci spaventa.
Basta guardarci intorno, per incontrare bambini saggi e prudenti come vecchietti, sessantenni in cerca dell’amore che possa cambiargli la vita, mariti protetti e imprigionati da mogli-madri, donne che sposano uomini che hanno paura del buio e che, se devono prendere una decisione, chiamano l’unico numero che sanno a memoria: pronto, papà?
Fatale allora, diventa il momento in cui abbiamo davvero la nostra età interiore e l’anagrafe, per qualche anno, potrebbe giustificare a noi stessi e agli altri i nostri comportamenti, le emozioni, i pensieri, i desideri. Eppure, proprio quando ci sarebbe permesso di esprimere quei comportamenti, quelle emozioni, quei pensieri e quei desideri, qualcosa ce lo impedisce. Come se quanto è destinato al per sempre non potesse confrontarsi con l’adesso – è adesso che tocca a te.
Lo sa bene Teresa Ciabatti che, con la solita impudicizia che però stavolta si accompagna a un calore della scrittura tutto nuovo, in Sembrava bellezza (Mondadori) si ostina a interrogare loro. Gli «esseri rosa». Vergini e suicide, né vergini né suicide, adolescenti per sempre che però, quando toccherebbe a loro avere davvero sedici, diciassette, diciotto anni, non ce la fanno, si sentono troppo sbagliate, condannate da uno zaino a forma di koala che denuncia la loro inadeguatezza, o si sentono troppo giuste – e come si fa a sostenere il peso di una perfezione che ha proprio a che fare con il suo essere effimera? Per riuscirci dovrebbe venire in soccorso qualcosa di straordinario, qualcosa che possa succedere solo a te. Mettici poi che sono gli anni Ottanta ed essere giovani negli anni Ottanta può sembrare possibile, forse addirittura facile, solo a chi in realtà, dentro di sé, ha novant’anni oppure tre. Dunque «questa è sì la storia di Livia, ma nel profondo, in senso universale, è la storia delle ragazze di quella generazione. Questa è la storia di Emanuela Orlandi, che, nonostante fossero passati sei, sette anni, poi otto, nove, era ancora nella nostra mente. La parte eroica di noi, quella che fronteggiava i rapitori – nell’angolo oscuro della nostra immaginazione, figuriamoci l’immaginazione come una grotta. Nell’angolo Emanuela eroica, e via via più fragile. Vieni qui, dicevamo nell’intimo a quella parte dispersa. Non piangere. Questa è la storia di Livia, di Emanuela, di tutte le ragazze cadute nella botola. Quanto era facile sparire, allora».
Tanto era facile sparire, quanto era difficile esistere, rimanere in bilico fra realtà e fantasie, contenere i sogni perché riuscissero sì a provocare la vita vera, ma senza permetterle di svuotarsi di senso, in un continuo devastante confronto con quello che non c’è, che ormai è andato, che mai sarà.
«I fatti e le persone di questa storia sono reali. Fasulla è l’età di mia figlia, il luogo di residenza, altro». Esordisce così il racconto di Scrittrice, il visionario e controverso io narrante, protagonista a tutti i costi e nello stesso tempo suo malgrado della storia che vuole (?) consegnare ai lettori che l’aspettano o che forse l’hanno già dimenticata, chi lo sa: ma che comunque sono stati tanti, per l’unico libro che ha scritto e che finalmente, ora che di anni all’anagrafe ne ha quasi cinquanta, sembra averla risarcita, appunto, dalle mortificazioni dell’adolescenza. «Davanti a una telecamera, dietro un leggio, succede che il pensiero vada a chi non mi ha compresa. Riappaiono i venticinque volti adolescenti, occhi azzurri, apparecchi ortodontici, denti perfetti, lentiggini, guance scavate, guance piene, capelli schiariti dal sole, gonne al ginocchio, gambe snelle, liceo Goffredo Mameli, Parioli, Roma». È lì, non tanto a Roma, ma in quella Roma che Scrittrice, da bambina, si è di colpo ritrovata. «Koala, trucco. Un mascherone, diranno alle tue spalle. Ti senti persa, dentro di te chiami mamma, a ogni passo mamma, tranne poi maltrattarla quando ce l’hai davanti: perché mi hai strappato alla mia vita? Piango, pretendo un risarcimento. Fammi essere come gli altri, una miliardaria come tutti, mamma». Invece Scrittrice ha una storia che la inchioda a essere diversa, ha un seno più grande dell’altro, non è bella, ma non ha nemmeno il corpo deforme che si convince di avere. Però ha un’amica, Federica. Più ricca di lei, come lei né bella né deforme e con una stella cometa al posto di una sorella: Livia. Livia che non fa in tempo neanche a desiderare un ragazzo e già diventa suo, Livia che fa luce, che quasi non si accorge di avere una sorella, figuriamoci se si accorge che quella sorella ha un’amica – dov’è Federica? Le chiede un giorno la madre. Con la cicciona, risponde distrattamente Livia. Cicciona da cui, per diversi motivi o forse nessuno, Federica a un certo punto prende le distanze.
Ma ora che Scrittrice è alle prese con la menopausa e con un’altra vera adolescenza, quella della figlia Anita che ha preferito andarsene a Londra a vivere con il padre e la sua nuova compagna e che tacitamente accusa la madre del fallimento della loro famiglia, ora che Scrittrice dovrebbe avere altri problemi e potrebbe aspirare ad altre gratificazioni, Federica torna. E con Federica tornano i glicini e Livia e la notte in cui, per un misterioso incidente, la vita di Livia si è spezzata e la sua giovinezza ha trovato la maniera più impensabile per durare davvero per sempre. «Che sia questa l’immagine esatta del ritardo mentale. (…) L’errore di tempo, dimenticare che tua madre è morta, non ricordare di avere cinquant’anni. Che sia questa la radiografia – altro che cervello sul monitor, agglomerato nero sul lobo sinistro —, la radiografia perfetta del cervello danneggiato».
Il richiamo dei glicini è irresistibile e mentre Scrittrice si ritrova ad accudire Lidia come fosse una figlia, finalmente forse comincia a capire Anita, mentre comincia a capire Anita, smette di giocare a nascondino con i suoi fantasmi e, se a scrivere non fosse Teresa Ciabatti, li chiamerebbe uno per uno a uscire dalla loro botola. Ma dato che è Teresa Ciabatti a scrivere, è Scrittrice che cade. E ci trascina tutti lì dentro.
Dove tutto, se ha avuto davvero inizio, non potrà mai davvero avere fine.