la Repubblica, 26 gennaio 2021
L’arte del trasformismo
Dal patriota (vero) Cesare Correnti, con busto di bronzo a Milano, al patriota (falso) Lello Ciampolillo, che ha la residenza su un albero, i trasformisti, in un crescendo di pittoresco lungo 145 anni, compongono uno straordinario canovaccio della commedia dell’arte. E però il trasformismo così tanto è carattere e metodo della cattiva politica da cancellare anche qualche identità importante come quella di Piera Aiello, una vita di ribellione e di coraggio contro la mafia: in famiglia, a fianco del giudice Borsellino, in tribunale, nei nascondigli dei testimoni, in Parlamento. Piera, che aveva lasciato i 5stelle quando il ministro Bonafede mandò agli arresti domiciliari gli ergastolani del 41bis, è ora finita nel cesto sporco dei “volenterosi” pur meritando mille e uno distinguo. Purtroppo ai giornalisti capita, e con Piera è capitato pure a me. Perciò vale la pena, con le scuse, chiedersi com’è stato raccontato il trasformismo in 145 anni. I giornali dell’epoca, pur paludati, definirono così Agostino Depretis, l’inventore del trasformismo: “il Divo Budda”, “Caino”, “il Clown”, “l’Affondatore”.
Per Carducci era “l’irto, spettral vinattiere di Stradella”. A firma Petruccelli della Gattina leggo che era «affabile, piaggiatore, familiare, promette sempre, promette tutto».
E concludeva: «Egli è nato malfattore politico come si nasce poeta o ladro». E c’è persino la volgare metafora del colto idealista Silvio Spaventa che lo paragona a «un cesso che resta pulito sebbene ogni immondezza vi passi».
Insomma il Trasformismo, sino a Giuseppe Conte, sempre più è stato raccontato come sapido mercato, a partire dal 1876 che è anche l’anno di nascita del Corriere della Sera. Il suo primo direttore Eugenio Torelli-Viollier così lo descriveva: «Mere combinazioni e scombinazioni dei gruppi di maggioranza» al servizio di «cospirazioncelle di gabinetto».
Ovviamente non è trasformismo convertirsi né cambiare idea, altrimenti sarebbero trasformisti non solo Maria Maddalena e San Paolo, ma anche Norberto Bobbio, Fortebraccio e Lucio Colletti. È il suffisso ismo a segnalare la cattiva qualità della trasformazione, talvolta assimilabile al genio dell’imbroglio. C’è stato per esempio il nominalismo, quando i partiti, per non cambiare, cambiavano nome. E con Berlusconi il trasformismo è diventato lifting e chirurgia estetica. Di sicuro ancora nessuno ha raccontato il trasformismo meglio di Federico de Roberto. «L’Italia è fatta, ora dobbiamo fare i nostri interessi»: L’Impero è il titolo del “romanzo di vita parlamentare” che l’autore dei
Viceré non riuscì a finire. Per il suo trasformista «monarchia o repubblica, religione o ateismo, tutto era quistione di tornaconto materiale o morale, immediato o avvenire … Per conseguire lo scopo si sarebbe professato anche nichilista … Aveva fatto strada affermando e negando le stesse cose secondo l’umore dell’uditorio o della maggioranza. A parole dava ragione a tutti, tra sé credeva di averla soltanto lui».