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 2021  gennaio 26 Martedì calendario

Intervista a Yann Arthus-Bertrand

«Contrariamente a quanto accade con la pandemia, non c’è nessun vaccino contro il cambiamento climatico. O meglio, possiamo essere tutti il vaccino, con i nostri comportamenti ». A quasi 75 anni, il celebre fotografo, regista e ambientalista francese Yann Arthus-Bertrand riassume così il messaggio centrale del proprio ultimo film, intitolato Legacy. La nostra eredità, proposto questa sera in prima visione al pubblico televisivo transalpino, in una Francia in cui i cinema restano chiusi. Un’opera molto intensa e a tutto tondo, dalle immagini mozzafiato, sempre a cavallo fra documentario e manifesto ecologista, con uno sguardo finale originale pure sulla crisi sanitaria.
La sua fiducia nella forza delle immagini è la stessa di quando fotografava e filmava leoni in Kenya, 40 anni fa?
«Completamente. Sono sempre meravigliato dai luoghi, dalle scene naturali d’azione. Quando si guarda la Terra dal cielo, la visione cambia. Scopri cose che non pensavi di trovare. Quest’ultimo film riassume un impegno lungo 50 anni. Ho cercato di fare un film su ciò che non si dice, sul coraggio di dire la verità. Restiamo un po’ tutti lì a sperare che le conferenze climatiche, le COP, oppure le auto a idrogeno, cambieranno le cose. Siamo troppo spesso un po’ accecati da forme d’autoillusione. Ci serve un po’ a rincuorarci, certo. Ma così occultiamo la verità, divenendo un po’ complici di ciò. In realtà, tutti, o quasi, provochiamo il cambiamento climatico».
Vorrebbe oggi salvare anche quelli che lei definisce i suoi maestri, proprio i leoni keniani e gli altri animali selvaggi?
«Oggi, nella riserva di Masai Mara, vivono i discendenti delle stesse famiglie di leoni che fotografavo quando vivevo in Kenya. Il territorio appartiene ai leoni, mentre gli altri animali sono di passaggio. Ma quando evoco la perdita della biodiversità, mi riferisco naturalmente a qualsiasi specie. Ho vissuto in Kenya per tre anni in mezzo a una sorta di magia quotidiana, di armonia assoluta. Evocandola, mi pare di riviverla. Gli animali selvaggi non hanno paura di te. Stai in mezzo a loro con il binocolo. Sono un po’ nostalgico di quegli anni. Mi piacerebbe tanto ritrovare sensazioni simili in una foresta francese o europea».
Per lei, l’umanità è oggi un po’ come quegli gnu che attraversano pericolosamente il fiume Mara, rischiando la vita…
«Ho impiegato questa metafora nel film per spiegare che la natura è da sempre pure un combattimento permanente per la sopravvivenza. Con la ricchezza economica dell’era del petrolio, l’avevamo del tutto dimenticato. Anche per questo, forse, fatichiamo tanto a mettere a fuoco i rischi che abbiamo davanti, pure in questi mesi».
Legacy è pure una storia di sguardi umani. Di contadini, dapprima, poi di persone impegnate come Greta Thunberg. Alla fine, il suo stesso sguardo di fronte alla telecamera.
«Cerco di convincere da sempre, ma oggi mi sento investito ancor più di una sorta di missione. Mi chiedo sempre se sarò capace di evocare in modo convincente, con i miei film, le sfide ecologiche. Più che in passato, questa volta ho cercato di parlare d’amore, avendo una coscienza e percezione un po’ amorosa del mondo. Ho osato mettermi alla fine davanti alla telecamera, non tanto per la legittimità che forse ho acquisito nel tempo. Riprendendo tanti volti nel mio film Human, ho sentito quanto sia toccante una persona che parla guardandoti negli occhi. Occorre essere sinceri, anche ammettendo di non aver lezioni da dare a nessuno, essendo naturalmente anch’io una parte del problema».
«La sola energia sostenibile è l’amore», lei dice nel film. Di quale amore parla?
«Dell’energia che ad esempio siamo capaci di sprigionare quando difendiamo i nostri figli, sempre un po’ sovrumana. Per loro, saremmo capaci di morire. Oggi, occorre mettere un po’ di quest’energia sovrumana al servizio della vita sulla Terra, andando un
po’ più in là dei nostri piccoli problemi personali».
Quest’amore è l’ultima frontiera di ogni impegno ecologico autentico?
«Sì, e penso che ciò manca spesso ai politici ambientalisti. Sembrano spesso indifferenti a questo bisogno d’empatia, cadendo nella trappola di una politica fatta di cattiveria, gelosia, egocentrismo. Ma la vera ecologia non è questo. Non a caso, la gente si mostra oggi più sensibile all’ecologia, ma spesso non vota gli ambientalisti. La politica manca d’amore. Un celebre politico, Michel Rocard, mi disse che la cattiveria è una qualità politica. Ascoltando cose del genere, mi rendo conto che resta ancora tanto cammino da compiere».
Per un regista, questa benevolenza deve tradursi pure nel non mostrare immagini disturbanti?
«Non per forza. Con Legacy, non ho voluto fare un film catastrofistico, certo. Ma mostro pure immagini forti. Come certi allevamenti d’animali simili a lager, o gli uccelli soffocati dalla plastica, o San Francisco divenuta rossa per il riverbero dei megaincendi. Queste immagini mi sembravano necessarie».
Mezzo secolo d’incontri in tutto il pianeta l’hanno cambiata?
«Tanti mi hanno ispirato, certo, in particolare quelli che si battono ogni giorno per l’ambiente senza far rumore e passare sui media. Pensando a loro, mi sento un’umile pedina della causa ecologica in mezzo a tante altre».
«Siamo in una civiltà dello scarto », lei dice. Parole che fanno eco a un messaggio che papa Francesco continua a ripetere.
«Penso che papa Francesco possa ispirare tantissime persone. Fa parte dei grandi personaggi di cui abbiamo bisogno. Oggi, in Francia e altrove, non amiamo più troppo i leader politici che ci governano, siamo diffidenti. Nel caso di papa Francesco, ci ispira fiducia. In generale, abbiamo bisogno di persone le cui parole si dimostrano coerenti con tutta una vita».
La pandemia le ha involontariamente offerto lo spunto per l’epilogo imprevisto del film, con le immagini impressionanti delle città vuote a causa di una zoonosi, una malattia trasmessa all’uomo dagli animali e associata, secondo gli scienziati, alla scomparsa delle aree naturali.
«Come tutti, naturalmente, avrei preferito fare a meno di questo contesto drammatico. Ma forse questa pandemia, assieme a così tanta sofferenza, potrà ispirarci delle domande sui nostri stili di vita. Stiamo tutti un po’ riflettendo di più sul senso della nostra vita, del nostro lavoro, su ciò che vale davvero la pena di essere difeso».