il Giornale, 25 gennaio 2021
Quando la Federcalcio colonizzò l’Africa
Un forno, Asmara nel ’36. Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, nel dominio africano, sotto un sole che apre solchi di venti centimetri e fa grondare di sudore anche i cammelli all’ombra, gli italiani governano il Paese del loro improbabile Impero, vanno forte, procreano e organizzano il primo campionato di calcio eritreo.
Temperature sui 40 gradi, campi a 2.400 metri di altezza in terra battuta sistemati ovunque appena si trova lo spazio minimo per farci stare due porte per il lungo, magari anche in pendenza, fa lo stesso, il calcio è calcio. Ricordi obnubilati ma qui si diventa eroi subito, in quelle bufere di polvere basta uscire da una mischia palla al piede ed è fatta. Ci siamo, poveri e abbastanza disperati, in braghe corte ma padroni dell’avvenire. Vengono tirate in piedi dieci squadre per un vero campionato affiliato alla Figc come serie D o quarto livello diviso in direttori e l’Eritrea è il direttorio XXIII. Il campionato è bello e importante, fa migliaia di anime a partita, centinaia abbarbicate sugli alberi, un’immagine finisce sul Corriere Illustrato. Una corda per delimitare il campo, gli eritrei quando la palla passa sotto il loro naso tentano di calciarla e ci sono dei custodi muniti di mazze che regolano il traffico. Pionieri, precursori, un po’ birbaccioni ma fuoriclasse in tutto. Luigi Sciascia è uno di questi. Gioca in porta nell’Ardita con le lenti da miope. Non ha paura di niente e nessuno, esce a valanga e quello che prende prende, un unico terrore, perdere gli occhiali. Gli è successo innumerevoli volte e nella maggior parte dei casi non vengono mai ritrovati, fatti sparire dopo uno scontro furibondo dove schizzano a distanza siderale, subito sgraffignati dagli avversari per menomare le sue prodezze. Li tiene legati dietro alla nuca con una cordicella ma non sempre basta e un bel giorno prende una decisione che ritiene solenne, farsene un paio di scorta. Quello di riserva lo tiene nascosto dietro al palo di sinistra dove senza farsene accorgere prima di ogni partita fa una piccola buca e lo sotterra. Con un occhio controlla la palla, con l’altro non perde di vista la scorta sotterrata. Un vita d’inferno. Ma dopo un po’ di volte quella manovra diventa di dominio pubblico, tutti sanno che c’è una piccola buca accanto al suo palo di sinistra. Durante un calcio d’angolo il paio legato con la cordicella va in mille pezzi, non una ma tutte e due le lenti in frantumi, va per prendere quello di riserva e scopre che glielo hanno rubato quei mascalzoni. Notte fonda, ma Luigi Sciascia non molla, strizza gli occhi e rimane in porta, ne prende una dozzina ma continua a fare il portiere perché è italiano e nel calcio gli italiani vanno forte. Il suo maggior rivale per il titolo di miglior portiere del campionato è un certo Pietro Vecchio. Sciascia è meglio, forte nelle uscite, prese da cercopiteco, tuffi da tutte le parti e sempre pronto a rimbalzare e rimettersi in piedi. Pietro Vecchio mette in discussione il suo primato solo perché decima gli avversari. Quando questi si avvicinano palla al piede a lui non interessa cosa hanno intenzione di fare, se calceranno in porta o tenteranno di dribblarlo, gli salta addosso e gli tira un pugno. Si fa così, passa come legittima difesa, mandi l’avversario all’ospedale e se non hanno una riserva meglio, continuano in dieci. L’arbitro, italiano pure lui, non fischia mai, il calcio in Eritrea è duello maschio e spesso fa sua la partita chi mena più forte, la regola non è scritta ma va rispettata come tutte le regole. Il mitico Sacco, Luciano per gli amici, alla vigilia delle partite sta sempre male e si mette in branda ad aspettare gli eventi. In prossimità del fischio d’inizio, si presenta il presidente della squadra con in mano l’altrettanto mitica mazzetta e lui d’improvviso guarisce, salta giù dalla branda, segna raffiche di gol e la volta successiva ci riprova. Pare abbia chiuso col calcio in Arabia Saudita perché lì pagavano meglio. Umberto Semintendi, un fuoriclasse assoluto, lavora in un’azienda farmaceutica dell’Asmara e sa alla perfezione come usare i prodotti della ditta. A quei tempi la maggioranza dei calciatori lavora nell’azienda in cui gioca e Semintendi di giorno si sente sempre fiacco e non se la sente di presentarsi a bottega. Il proprietario della ditta e della squadra lo lascia in pace perché è troppo prezioso per la classifica e chiude un occhio. Il giorno della partita Semintendi entra in ditta fra gli applausi, sequestra una manciata di fiale di Decadurabulin e se le spara intramuscolo. Dopo la prima l’effetto è già straordinario, alla seconda inizia a scalpitare e non riesce più a fermarsi, alla terza parte come una littorina e conferma la sua fama di imprendibile, punta di diamante del Savoia e tutti credono abbia tre gambe. Dieci squadre tutte sponsorizzate da aziende, la Melotti fabbrica birra, la Fenili produce vino, Tabacchi fa ceramiche, la Barattolo è un cotonificio, Cicero la più famosa, sono di Taranto, possiedono un’officina tipografica, una fabbrica di caramelle, un mobilificio, una vetreria, un grande bazar nella principale strada di Asmara e a Massaua sono proprietari di un lido con annesso ristorante e piano bar dove si esibisce Renato Carosone.
Bei tempi per questo calcio crudo estrapolato da un contesto opposto e più probante, quando si muovono anche gli eritrei, fondano le loro prime squadre e ci sfidano, l’inarrivabile Luigi Di Giulio lascia in acqua i palloni tutta la notte per appesantirli, loro sono più gracili, noi più robusti.
Poi sono arrivati gli inglesi.