la Repubblica, 25 gennaio 2021
Intervista a Pau Gasol. Parla di Kobe Bryant
«Sono devastato… il mio grande fratello… no, non posso proprio crederci». È passato un anno dall’incidente di elicottero che si portò via Kobe e Gianna Bryant e la vita di altre sette persone. Non appena apprese la notizia, Pau Gasol era disperato. Un anno dopo, ancora oggi sente «un grande senso di vuoto» se ripensa alla tragedia, lo schianto avvenuto, lo scorso 26 gennaio, su una collina della contea di Los Angeles, a Calabasas, pochi chilometri a nord ovest della città degli angeli. La relazione tra i due lakers andava, infatti, ben oltre il parquet come ci teneva a sottolineare lo stesso fuoriclasse di Philadelphia: «Pau è tutto per me, senza di lui non sarei riuscito a vincere tutti i miei anelli. È e sarà sempre mio fratello». Un hermano che ha dato il nome della dolce Gianna alla propria primogenita (Elisabet Gianna), la cui madrina di battesimo è Vanessa Bryant, la vedova del Black Mamba.
Come spiegherà a sua figlia chi era zio Kobe?
«Sono sicuro che Elisabet Gianna saprà bene chi era suo zio Kobe perché io, mia moglie e la famiglia Bryant gliene parleremo per tutta la vita».
Quale crede che sia l’eredità più importante che ha lasciato?
«Senza dubbio quella che dovrebbe spingerci tutti a vivere la vita al massimo. Perché non possiamo sapere cosa succederà domani».
Un talento unico…
«Passando a un aspetto più pratico della sua eredità, credo proprio che rimarrà per sempre la sua filosofia, fatta di perseveranza e tanto lavoro: perché si può anche avere un talento o un’abilità speciale, ma diventa tutto inutile, sia nello sport che in altri ambiti della vita, se non si ha anche l’atteggiamento adeguato».
E lui l’aveva.
«Sì, i suoi successi si devono in gran parte proprio a quella sua mentalità che lo ha portato non solo a non mollare mai, bensì a lavorare sodo per essere anche il migliore».
Le manca molto?
«Certo… ci sono ancora giorni in cui faccio fatica a credere che non sia più con noi e, quando lo ricordo, provo un grande senso di vuoto».
Ha avuto la fortuna di giocare e di essere uno dei protagonisti dei Lakers di Kobe Bryant e Phil Jackson. Chi era più competitivo?
«Entrambi lo erano, a modo loro.
Difficile paragonarli perché la voglia di competere ha mille sfaccettature. Può essere, infatti, più esplicita ed evidente anche all’esterno come quella di Kobe o più prudente e riflessiva come quella di Phil».
Un vero e proprio privilegio, il suo.
«Entrambi hanno avuto una grande influenza sulla mia vita. Due persone straordinarie».
I trionfi in campo, però, non le bastavano e nel 2013, assieme a suo fratello Marc, decise che fosse arrivato il momento di fondare la Gasol Foundation. Aveva pure cominciato a studiare Medicina.
«I miei genitori hanno dedicato tutta la loro vita a questo campo: mia madre era medico e mio padre infermiere. L’obiettivo della fondazione è quello di aiutare ad affrontare uno dei problemi di salute più gravi tra le nuove generazioni: l’obesità infantile».
Dieci anni prima era stato nominato ambasciatore
dell’Unicef, quando ha capito che doveva fare qualcosa per gli altri?
«Sin da quando ero piccolo, grazie all’esempio che ho ricevuto a casa. I miei genitori mi hanno inculcato l’importanza di prendersi cura delle persone, specialmente delle più svantaggiate. La mia collaborazione con l’Unicef è uno dei modi che ho trovato per restituire alla società quello che ho avuto la fortuna di ricevere».
Al centro della sua fondazione ci sono i bambini, perché?
«Perché sono il nostro futuro.
Perché sono arrivato fin qui perché ho avuto un’infanzia fortunata con genitori che mi hanno sostenuto in ogni momento e che mi hanno dato molte opportunità».
Da qualche anno la Gasol Foundation collabora anche con la Fundació Barça.
«Uniamo le nostre forze per raggiungere quante più famiglie e bambini possibili, soprattutto quelli delle fasce più vulnerabili, con l’obiettivo di inculcare abitudini di vita sane e i valori intrinseci dello sport».
Quali sono i gruppi più vulnerabili?
«Quelli con un livello socioeconomico più basso. Gli studi evidenziano una stretta relazione tra il tasso di povertà e l’obesità infantile».
Qual è stato l’impatto della pandemia su queste dinamiche?
«Negativo. La sfida che abbiamo il dovere di affrontare, infatti, non è solo quella di sconfiggere il virus, ma anche di mitigare i suoi effetti negativi sulle abitudini sane».
Cosa significa poter contare
sulla collaborazione di un club globale come il Barça?
«Il Barça è molto importante per me. Non solo per averci giocato prima di andare in Nna, ma anche perché è il club della mia terra e per il quale ha giocato anche mio fratello. Ed è per questo che è stato un piacere per me essere nominato consigliere strategico e ambasciatore globale del Barça».
Dal suo primo club, quello blaugrana, al più importante e che potrebbe essere anche l’ultimo, quello gialloviola: le piacerebbe finire la carriera nei “suoi” Lakers con Marc e LeBron?
«Beh, non sarebbe male. Ma dipende da diversi fattori, alcuni dei quali non li controllo io. Ed è per questo motivo che, in questo momento, preferisco concentrarmi sul lavoro quotidiano che mi permetterà di lasciarmi alle spalle l’infortunio al piede sinistro. Una volta raggiunto questo obiettivo, tutto quello che arriverà da quel momento in poi sarà speciale e ho intenzione di godermelo».
Tra i suoi obiettivi ci sono anche le Olimpiadi di Tokyo. Si parlava prima dell’eredità di Bryant, quale sarà invece quella che lascerà Sergio Scariolo al basket spagnolo e mondiale?
«Il suo curriculum con la nazionale spagnola parla da solo: le due medaglie olimpiche, il mondiale 2019, i tre ori e il bronzo agli Europei... Allo stesso tempo, però, non bisognerà mai dimenticare la sua dedizione e l’impegno che ha sempre messo in campo durante la sua lunga carriera. E poi, ci lascerà anche un’eredità emozionale molto importante. Sergio, infatti, è un allenatore di basket ambizioso, ma sempre rispettoso, e ispiratore: un grande leader».