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 2021  gennaio 25 Lunedì calendario

A trent’anni dalla Guerra del Golfo

Il petrolio che piove dal cielo e trasforma il deserto in un inferno di pece bollente. La notte di Baghdad trafitta dalle esplosioni di missili e traccianti. Le scie degli Scud che attraversano il Medio Oriente per piombare su Israele. Le colonne spettrali di veicoli carbonizzati sull’autostrada di Kuwait City. Fino all’epilogo di un’armata stracciona che si arrende usando le mutande come bandiera bianca. Sono immagini che un’intera generazione non potrà dimenticare: la memoria della Guerra del Golfo che trent’anni fa viveva la sua fase più sanguinosa. Un conflitto senza precedenti. Il primo a entrare in diretta nelle case, grazie ai satelliti della Cnn; il primo in cui la catastrofe ecologica è stata usata come un’arma; il primo che ha visto la tecnologia degli “ordigni intelligenti” relegare in secondo piano i combattenti in carne e ossa. Due mesi di bombardamenti, poi un attacco terrestre di sole cento ore hanno piegato l’esercito iracheno, senza però abbattere Saddam Hussein. Per questo è passata alla storia come la vittoria più netta e più discussa degli Stati Uniti, che poi hanno negato la rielezione al presidente che realizzò quel successo non solo militare ma anche politico: George Bush padre.
La Guerra del Golfo è stata anche il laboratorio diplomatico costruito sulle macerie del Muro di Berlino, per superare le contrapposizioni che dal 1945 avevano diviso il pianeta: nelle sabbie saudite è stato tracciato “un nuovo inizio” nel tentativo di arginare il caos nato dalla disgregazione dei Blocchi. «Abbiamo davanti l’occasione di forgiare per noi e per le generazioni future un nuovo ordine mondiale – dichiarò George Bush –. Un mondo dove le leggi del diritto e non la legge della jungla guideranno la condotta dei governi; nel quale delle Nazioni Unite credibili potranno diventare custodi della pace». Oggi, di fronte al dilagare delle autocrazie, all’indomito terrorismo jihadista, alle divisioni in seno all’Occidente ed alla lunga pandemia, gli organismi internazionali sono svuotati di rilevanza e ogni alleanza è indebolita ma le lezioni di quel conflitto restano uno dei pochi paradigmi a cui fare riferimento, nel bene e nel male, per riprendere un cammino di stabilità. Perché gli Stati Uniti guidarono la comunità internazionale nella difesa del principio della sovranità degli Stati che ancora oggi resta un perno cruciale della stabilità globale.
Il nemico di tale sovranità allora era il feroce Raiss iracheno, Saddam Hussein, convinto di potere ridisegnare il mondo usando la violenza più efferata contro il suo popolo ed aggredendo i suoi vicini. Nella versione più dispotica e bellicosa di un nazionalismo arabo che si richiamava all’Egitto di Nasser. Nel ferragosto del 1990 Saddam occupa il Kuwait e lo annette come diciannovesima provincia irachena. Il Raiss negli otto anni di lotta contro l’Iran ha potuto contare sul sostegno dell’Occidente e dei paesi arabi sunniti: è convinto che lo lasceranno fare. Si sente onnipotente, con un controllo spietato del suo popolo e una macchina bellica inferiore solo a quella israeliana. Ma ha sbagliato i calcoli e frainteso i limiti della realpolitik americana. La Casa Bianca non può accettare la cancellazione di uno Stato sovrano e reagisce con determinazione: in poche ore i parà cominciano a schierarsi in Arabia Saudita, l’avanguardia di un contingente che arriverà a mezzo milione di uomini.
Si disse che gli Usa lo facevano per il petrolio: in realtà Bush guarda molto oltre. Rivitalizza le Nazioni Unite, che condannano l’invasione e legittimano tutte le fasi del confronto, fino ad autorizzare l’uso di “ogni possibile mezzo” per liberare il Kuwait. Riesce a costruire una coalizione che segna la massima espressione del multilateralismo. L’origine è in parte casuale. Nel giorno del blitz iracheno il segretario di Stato James Baker si trova in Siberia con Eduard Shevardnadze, l’ultimo ministro degli Esteri dell’Urss. Che – nonostante i solidi rapporti tra Mosca e Baghdad – firma immediatamente una durissima dichiarazione con il collega americano. «È stato quel documento a segnare la fine della Guerra Fredda», dirà poi Baker. In Arabia Saudita prende posizione un’alleanza militare che fino a un anno prima sarebbe stata inconcepibile. Ben 38 nazioni al fianco degli Usa. Ci sono reparti della Nato: inglesi, francesi, canadesi, norvegesi, belgi, spagnoli. Ci sono forze del morente Patto di Varsavia: polacchi, cecoslovacchi, ungheresi. E soprattutto ci sono centomila egiziani, siriani, emiratini, qataroti, pachistani, marocchini. C’era anche il maggiore Abdel Fattah al Sisi, oggi presidente dell’Egitto: «È stato drammatico, l’unica guerra a cui ho partecipato è stata contro un altro Paese arabo – ha ricordato durante un colloquio con Repubblica – ma nel 1991 sapevamo che era giusto combattere per liberare il Kuwait». In Italia il pentapartito guidato dal premier Giulio Andreotti decide il primo impegno bellico dal 1945. È una scelta sofferta: il Pci si divide su Saddam Hussein e la maggioranza dei cattolici è addirittura contraria a sfidare il dittatore che ha gasato migliaia di civili curdi inermi. Persino l’ammiraglio Mario Buracchia, al comando della flotta nel Golfo, dichiara a Famiglia Cristiana che «la guerra si poteva evitare» e viene rimosso dal governo. La missione d’esordio dei cacciabombardieri Tornado è disastrosa: solo uno arriva sull’obiettivo e viene abbattuto. I piloti Bellini e Cocciolone sono esibiti nei tg dagli iracheni. L’operazione più difficile è la meno nota: i parà della Folgore sui monti del Kurdistan proteggono e sfamano un popolo in fuga dalla vendetta di Saddam.
Il condottiero è Norman Schwarzkopf, l’ultimo generale a cui è stato tributato il trionfo nelle strade di New York e di Washington. Decide di logorare l’Iraq con 100 mila bombardamenti, poi in quattro giorni accerchia i pretoriani della Guardia Repubblicana e li sbaraglia. Moriranno 12 mila militari iracheni e almeno duemila civili; i caduti statunitensi sono stati 147. L’eroe è il capitano H. R. McMaster. Nel mezzo di una bufera di sabbia lancia alla carica i suoi nove carri Abrams: sparano senza sosta per 23 minuti. Quando si fermano, intorno ci sono 50 tank nemici in fiamme e centinaia di morti.
Proprio McMaster – nominato Consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump, poi tra i critici più severi del presidente – tre mesi fa ha sintetizzato nel suo Battlegrounds come la vittoria nel deserto abbia creato una sorta di hybris statunitense: «L’America e le democrazie si sono dimenticate di dovere competere per mantenere libertà, sicurezza, prosperità». C’erano state tre grandi illusioni. Come aveva teorizzato Francis Fukuyama, si era imposta l’idea «dell’universalizzazione delle democrazie liberali occidentali come la forma finale di governo umano». E quindi si era ritenuta chiusa la competizione ideologica. Inoltre, senza più l’Urss si era creduta superata la sfida tra potenze. Infine, «c’era la convinzione che la supremazia tecnologica mostrata nel 1991 avrebbe permesso il dominio totale su ogni avversario. La competizione militare era finita». Questo «orgoglio esagerato» ha impedito agli Usa per tre decenni di comprendere il cambiamento: il ritorno degli autocrati come Putin; la nascita di potenze come la Cina; l’invenzione di nuovi modi asimmetrici di combattere, che provocheranno il jihadismo in Afghanistan e nella seconda guerra irachena. Bush padre aveva presentato per la prima volta il concetto di “Nuovo ordine mondiale” in un discorso al Congresso, annunciando un «periodo storico di pace e cooperazione internazionale». Era l’11 settembre 1990. Undici anni esatti dopo, il figlio assisterà al crollo di quell’idea assieme alle Torri Gemelle. Molti critici sostengono però che il “Nuovo ordine” sia entrato in crisi già nel febbraio 1991, quando la Casa Bianca rinunciò a deporre Saddam e gli permise di massacrare gli insorti sciiti e curdi. Bush senior ha sempre difeso quella decisione: «Occupare l’Iraq avrebbe distrutto la nostra coalizione, spingendo il mondo arabo a rivoltarsi contro di noi e trasfor-mando un tiranno sconfitto in un eroe arabo. Ci avrebbe portato oltre il dettato delle leggi internazionali, condannando i nostri giovani soldati a combattere una guerriglia urbana senza speranza di vittoria». Sarà il figlio di Bush, George W., divenuto presidente a voler rimediare a quella scelta con l’intervento in Iraq nel 2003 che depose Saddam Hussein aprendo una nuova stagione di conflitti in Medio Oriente.