La Stampa, 25 gennaio 2021
La repressione in Egitto
Al Cairo guardano con una certa distanza alle notti infuocate di Tunisi. Oggi cade il decimo anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir, cominciata il 25 gennaio del 2011. Anche allora l’incendio era partito dalla Tunisia, si era esteso inarrestabile e abbattuto un raiss dopo l’altro. Ma in Egitto i militari hanno imparato la lezione. Il presidente Abdel Fatah al-Sisi appare in una posizione più solida di Hosni Mubarak. L’apparato repressivo e propagandistico è più sofisticato. Le leggi anti-terrorismo permettono arresti di massa, oltre 65 mila dal 2013. La legge contro le “fake news”, varata nel 2018 e irrigidita nel 2019, consente alla polizia di fermare oppositori e attivisti per un semplice post critico, come nel caso di Patrick Zaki. Detenzioni di anni senza processo, maltrattamenti e torture sono la norma. ll rapporto del Committee for Justice sui “mille Regeni”, detenuti morti in carcere dal 2013, è soltanto un esempio. Ci sono anche “750 Zaki” e le leggi contro le ong internazionali hanno indebolito la capacità dell’opposizione di organizzarsi.
Certo, il contesto internazionale è cambiato, la nuova amministrazione americana è più attenta al tema dei diritti umani, le proteste nel mondo arabo potrebbero riprendere fiato. L’apparato di sicurezza ha però dimostrato di essere pronto a reagire con una durezza inaudita. Fra settembre e ottobre, dopo le manifestazioni nei quartieri industriali come Helwan, alla periferia del Cairo, gli scontri con la polizia, e poi una rivolta nella sezione Al-Aqrab, lo Scorpione, della prigione di Tora, con quattro secondini uccisi, la repressione è stata implacabile. Centinaia di condanne a morte e 57 esecuzioni in due mesi, contro le 32 in tutto il 2019. Il totale è poi salito a 92 a dicembre, dopo processi che Amnesty International ha definito «farsa». A Tora, detta la «tomba», dove si trova anche Zaki, sono rinchiusi terroristi dell’Isis assieme ad attivisti della Fratellanza che non si sono macchiati di fatti di sangue, e a oppositori laici colpevoli di aver pubblicato post critici su Facebook. Un rapporto di Human Rights Watch ha denunciato le torture sistematiche, ossa rotte e scosse elettriche, a cui sono sottoposto anche minori, persino di 14 anni.
Alle leggi speciali anti-terrorismo si è affiancata nel 2018 la legge sul «crimine cibernetico» con lo scopo di contrastare la «diffusione di falsità» e che consente la sorveglianza di massa sul Web, su qualsiasi cosa i cittadini dicano e scrivano. La legge di regolamentazione dei media ha incluso tutti gli account con più di 5 mila iscritti fra gli organi di stampa, quindi soggetti a censura e multe pesantissime, fino a 5 milioni di lire, 300 mila euro, in caso di «notizie false», cioè sgradite al governo, o che «mettano in pericolo lo Stato-nazione» o «incitino alla violazione delle norme». Se non basta, arrivano i raid delle forze di sicurezza nelle rare redazioni indipendenti, per esempio il giornale online Mada Masr. La legge permette di punire anche comportamenti sociali visti come inopportuni o «indecenti», come nel caso di cinque star di Instagram e Tik Tok arrestare per aver pubblicato video considerato troppo sexy. È un prezzo da pagare per l’appoggio dei partiti salafiti alleati di Al-Sisi e strizzare l’occhio alle monarchie conservatrici del Golfo.
Perché l’altro pilastro della solidità del regime è l’economia, e l’afflusso costante di petrodollari. Su questo fronte il regime, nonostante corruzione e nepotismo, è più efficiente rispetto a Mubarak. Al-Sisi ha realizzato gran parte delle riforme impopolari chieste dal Fondo monetario, a cominciare dal taglio dei sussidi. L’inflazione è scesa, la crescita è ripartita, più 3,6% del 2020, in un modello che unisce neoliberismo e mega-progetti in stile cinese. Pechino è dietro il raddoppio del Canale di Suez e della futura rete ad alta velocità che collegherà il Mar Rosso al Mediterraneo, passando per la faraonica nuova capitale sorta a 45 chilometri a Est del Cairo. Gli enormi investimenti hanno permesso di ridurre la disoccupazione dal 13 a 10%, anche se i militari continuano a controllare gran parte di industria e servizi, il malcontento sociale è rimasto, gli scioperi continuano.