La Lettura, 24 gennaio 2021
Binasco alle prese con Pirandello
Ispirato a una novella dello stesso Pirandello (Il tirocinio) , Il piacere dell’onestà fu messo in scena per la prima volta nel 1917 al Teatro Carignano di Torino. Su quelle storiche assi lo spettacolo torna con la regia di Valerio Binasco, anche autore dell’adattamento e protagonista sul palco con Giordana Faggiano, Orietta Notari, Rosario Lisma, Lorenzo Frediani e Franco Ravera. Nonostante l’emergenza sanitaria abbia costretto a rimandare il debutto a data da destinarsi, da settimane attori e maestranze lavorano a questa nuova produzione. Tutto è pronto per andare in scena, manca solo il pubblico. Che potrà comunque avventurarsi virtualmente nel backstage dello spettacolo attraverso il progetto Camere nascoste. Svelare il teatro a porte chiuse curato dal regista e videomaker Lucio Fiorentino. Un progetto che comprende la realizzazione di tre docufilm: D ov’è finita la normalità?, racconto di The Spank di Hanif Kureishi, il cui debutto era in programma l’8 dicembre (lo vedremo nel corso del 2021); Una terrible repetición su La casa di Bernarda Alba di Federico García Lorca, regia di Leonardo Lidi; e, ultimo, Le bestie, su Il piacere dell’onestà. Disponibile dal 5 marzo (tetrostabiletorino.it/camerenascoste), il docufilm ripercorre le tappe di questo lavoro attraverso le riprese delle prove, durante le quali «la Lettura» ha incontrato Binasco, regista e interprete.
Angelo Baldovino, un fallito, ex giocatore d’azzardo, con debiti e fama di scarsa moralità, accetta su invito di un vecchio compagno di scuola di sposare Agata, incinta del marchese Fabio Colli, un uomo già sposato. Un matrimonio che deve creare l’apparenza della rispettabilità ed evitare lo scandalo...
Dice Binasco che Il piacere dell’onestà non gli «è mai piaciuto». Il Covid gli ha fatto cambiare idea. «A causa delle restrizioni abbiamo dovuto rinunciare a una serie di progetti che avevamo in cantiere; ho cercato qualcosa che avesse il richiamo di un classico e prevedesse pochi attori in scena. Più teatro di parola che di azione. Mi sono ritrovato a leggere le opere di Pirandello. A colpirmi in particolare ne Il piacere dell’onestà è stata la scena in cui Fabio e Maddalena, la madre di Agata, cercano di convincere la giovane ad accettare questo marito per finta. La pressione in nome delle apparenze, la crudeltà familiare mi hanno riportato a un certo teatro del nord Europa che conosco meglio: c’era qualcosa di Strindberg, atmosfere in cui mi ritrovo di più».
Baldovino viene assoldato per interpretare l’uomo onesto, per rappresentare quell’onestà cardine di una presunta etica borghese. «Fin da subito – precisa il regista – si trasforma, però, in una figura ingombrante: resiste, in lui, una morale capace di opporsi a un concetto di onestà solo di facciata».
Nel processo di riscrittura, afferma Binasco, «sono stato meno “villano” del solito. Quando c’è un filone emotivo mi lascio trascinare, ma il teatro è una cosa effimera: anche se “strapazzo” un po’ gli autori, so che il mio “vandalismo” durerà poco. In questo testo la lingua di Pirandello è rigida, ma la riscrittura c’è. Ho voluto che anche i comprimari avessero una loro “umanità”, che non fossero solo delle “spalle”, dei rigidi ipocriti borghesi che un “filosofo” manda a gambe all’aria. L’amore di Fabio Colli è vero; quando Maddalena piange perché teme lo stigma sociale, è vera. Ho esplicitato emozioni che la “reticenza” anaffettiva di Pirandello relegava in contorti giri di parole».
L’intervento drammaturgico «forte», avverte Binasco, è semmai nel finale. Quando di fronte alla scelta di Agata di partire con Baldovino, questi arriva a dirle «potresti essere mia figlia» e «in me c’è un’anima nera». Parole a cui la giovane, da ragazza moderna, risponde: «Me ne frego di essere tua figlia, anche in me c’è un’anima nera». E scappano, lasciando il neonato tra le braccia del vero padre. «Baldovino è un romantico distrutto dalla vita; ha perso tutto e si è dato la maschera di “ragionatore”, di “filosofo”. È convinto che il pensiero metta al riparo dalle tempeste del cuore: scoprirà che così non è. “Abbandonando” il figlio, Agata si “macchia” di una colpa ma si affranca dall’amante e dalla madre. La fuga di lei e Baldovino rompe i tabù, lascia immaginare una vita nuova».
Quest’anno si celebra il centenario del debutto dei Sei personaggi in cerca d’autore. Una prima, quella al Teatro Valle di Roma del 1921, che fece strillare gli spettatori: «Manicomio! Manicomio!». «Prima o poi lo porterò in scena – assicura il regista – o forse farò un film. Titina Maselli, nipote di Pirandello, in maniera forse un po’ iperbolica mi diceva che due erano stati gli choc degli ultimi cento anni, i Personaggi e le Torri Gemelle. Certo, dovrò lavorare parecchio all’adattamento. Ma mi darebbe modo di parlare di qualcosa che mi sta molto a cuore, la vita di una compagnia di teatro».
McDonagh, Pinter, McPherson, Wesker, Fosse... Sono autori di cui Binasco ha portato in scena i testi. «Mi piace il loro uso speciale dei tempi sospesi. Un amore, quello per i tempi sospesi, che nasce dal mio incontro con due artisti diversissimi tra loro: Charles M. Schulz, il “papà” dei Peanuts, che con le sue strisce mi ha insegnato a mettere in scena Beckett; e il finlandese Aki Kaurismäki, con il suo cinema surreale. Sintesi dei movimenti; ironia; silenzi; composizione dei corpi: grazie a loro ho trovato la mia chiave per entrare nel mondo della drammaturgia contemporanea». Tempi sospesi, fughe, nuovi inizi. Quante vite ha avuto, fin qui, Valerio Binasco? «Tante. Forse troppe? Il primo incontro col teatro è avvenuto dopo un periodo opaco che mi portò addirittura al riformatorio. Nel tentativo di “rieducarmi”, mio padre giocò la carta della cultura, che detestavo. Mi portò a vedere Carmelo Bene, del quale non sapevo niente. C’era più “crimine” in un minuto di Carmelo che legge Dante, che in tutta la storia del rock’n’roll o in mille vandalismi notturni. Pensai: ecco, ho trovato quello che stavo cercando. Cominciai a leggere, a studiare. Mi infilai nel teatro con la stessa guasconeria con cui mi ero infilato nella vita. Non il teatro politico però: la mia idea di “ribelle” e di “artista” assecondava innanzitutto il bisogno primario di divertirmi. E come un personaggio di Pirandello, mi diverto solo quando faccio finta di essere qualcun altro».
Dopo Carmelo Bene, l’incontro con Carlo Cecchi. Quando, ride Binasco, «le sue compagnie sembravano provenire dall’antro di Mackie Messer: mi fece fare Amleto. Capii che la recitazione non era solo un mezzo per sfogare del testosterone fuori controllo; che tutto quello da cui fuggivo era diventato tutto quello verso cui ora andavo incontro; che recitare è parlare di te attraverso le parole di un altro. Mi spiace che mio padre non abbia fatto in tempo a vedere la mia trasformazione, ne intravide solo i segni. La sera, quando tornavo a casa dopo la scuola di recitazione notturna, mi aspettava. Stavamo seduti fino a tarda notte, parlavamo di letteratura: prima tra noi c’erano stati solo i silenzi. Purtroppo non posso dire di essere stato altrettanto efficace nella vita di marito e padre: qui sconto oggi il mio più grande fallimento».