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 2021  gennaio 24 Domenica calendario

Intervista a Títos Patríkios

Ci siamo lasciati poco più di un anno fa, su queste pagine, con Títos Patríkios, una delle voci letterarie che dalla Grecia si staglia nel panorama internazionale. Ricordo con piacere che qualcuno lo ha conosciuto proprio in quella occasione: talvolta gli incontri che non avvengono in una vita si accendono improvvisamente su una pagina, e dialoghi che non hanno mai avuto inizio si fanno miracolosamente possibili. Era il 2019 («la Lettura» #422 del 29 dicembre). Nello studio della casa di Atene, l’Acropoli in lontananza, i suoi versi suonavano così: «Rimane molto/ per nuove poesie/ e sia pure stato detto tutto/ da migliaia di poeti/ da migliaia di anni fino a noi/ rimane quel che resta della vita/ per ognuno di noi/ imprevedibile e ineffabile».
Non sapevamo allora quanta maggiore forza di verità si preparassero a incarnare queste parole. Durante l’anno che ci siamo lasciati alle spalle, senza lasciarci alle spalle il suo carico di inquietudine e sgomento per le drammatiche conseguenze della pandemia, la vita ha presentato – e non smette di farlo – un conto amaro. Quei versi acquistano oggi il sapore di una profezia. Come l’augurio che gli avevamo formulato al momento del nostro congedo: «Ancora su questa strada!».
La strada dà oggi il titolo all’ultima raccolta di poesie di Patríkios, composte in questi ultimi mesi e pubblicate dalla casa editrice Kichli di Atene: La strada, di nuovo (O drómos kaì páli), titolo che riprende quello di una raccolta del 1954, La strada sterrata (Chomatódromos).
Cos’è stata, quale funzione ha svolto per te – e credi possa svolgere per il mondo – la poesia in questo tempo di pandemia?
«La mia età, 92 anni, unita alle restrizioni imposte indistintamente a tutti, mi ha messo in una condizione di solitudine pressoché assoluta. Ora, mentre molte altre arti – la musica sinfonica, il teatro, il cinema – hanno bisogno di una polifonia di voci, di molte persone che creino e di ancora più persone che godano del fatto artistico, le arti della scrittura trovano il loro spazio di elezione nella solitudine. Ricordo che i miei genitori – che erano attori di teatro – soffrivano molto quando cause esterne impedivano loro di recitare. Io, in un certo senso, mi sono sentito un privilegiato ad avere tanto tempo per comporre poesie: scrivere è di per sé un’attività solitaria».
Immagino che questo ti abbia immerso non in un tempo sospeso, ma in un tempo ancora fecondo. Questa attività solitaria non contiene in sé la sua negazione?
«Certamente: la poiesis è creazione che sorpassa la solitudine, non si appaga di sé stessa. Comincia a trovare senso solo nella comunicazione».
Che cosa ha significato, quindi, comunicare, in questa stagione della vita personale e collettiva? Avevi messo in conto di continuare a comporre, di far dialogare ancora realtà e immaginazione, ascolto e scrittura?
«Per chi scrive – soprattutto per chi scrive poesia, che è per natura frammento, discorso spezzato che si può considerare concluso a ogni istante – solo la fine della vita, per chi ha come me la sorte di una discreta salute del corpo e della mente, può comportare la fine della scrittura. La questione non è scrivere ( lo faccio quasi ogni giorno) ma cosa fare della scrittura, quando considerarla degna di comunicazione».
È davvero quando «La poesia ti trova» (titolo di una tua raccolta) che si pone il problema di cosa fare di questo incontro, se «metterlo in condivisione» (un’espressione di cui oggi stiamo abusando, a proposito degli schermi dei nostri computer) o lasciarlo semplicemente «accadere» sulla pagina.
«In questo tempo ho pensato che la poesia può creare veramente quei ponti (lo dissi per la prima volta a Venezia, una città in cui il ponte è particolarmente essenziale) che vanno gettati tra le nostre solitudini, tra le voragini di distanze fisiche e psicologiche che si sono aperte nelle nostre vite. Può far accadere il miracolo del riconoscimento, nutrito dalla possibilità di immaginare le vite degli altri. È soprattutto nella comune privazione che la presenza del “tu” torna a contare».
Ne è venuta fuori una scrittura ancora più semplificata, che non ha bisogno di esegesi, di elaborate interpretazioni: hai detto spesso che una poesia che richieda di essere «spiegata» da chi l’ha scritta mostra tutta la sua incapacità, dà prova della propria debolezza. E soprattutto del narcisismo di chi la scrive. La poesia vive del suo essere un dono – speriamo non troppo molesto – per gli altri. L’avverbio «pálin» («di nuovo») diventa cifra di una creazione che ritorna, ma sicuramente compiendo un’altra strada rispetto a quelle consuete. Non richiama un ritorno ciclico, un rivoltarsi nell’identico, ma il senso di una novità che è quella della strada, che chiede occhi nuovi per vedere il mondo, nuove parole.
«Il “di nuovo” è la sfida più difficile: perché significa superare anche la tentazione della fine, nella scrittura come nella vita, farsi sorprendere da una pur passeggera eternità. Si tratta però di dare spazio alla creatività, di non accettare che la solitudine sia annullata da istanze totalitarie, obbligate, da strade a senso unico. È questo il momento di credere che verità e menzogna si contrapporranno sempre e sta a noi comprenderne i meccanismi e le seduzioni: “Tale forza ha la verità/ che può vincere alla fine/ anche la più strutturata menzogna./ Tale forza ha la menzogna/ che può ripresentarsi, e persuadere,/ presentando una nuova verità” (da Forze opposte, ndr)».

La tua poesia è stata per molto tempo anche una poesia di esilio. Ma oggi l’esilio – che tu hai conosciuto più volte – sembra una condizione esistenziale: esilio dalle nostre certezze, dai progetti, dall’invincibilità, da una patria che spesso non riconosciamo nelle sue scelte politiche, nella sua incapacità di prendersi autenticamente cura dell’umano. Il dolore comune può diventare allora condizione di riconoscimento reciproco. In che senso la tua esperienza ti aiuta a sostenere questa lontananza dalla patria delle certezze?
«Anche in questo, oggi, posso considerarmi fortunato: avere avuto molte patrie apre lo sguardo, dilata la capacità di “essere vita dai mille volti, vita unica, vita degli altri e nostra” (da La strada e la vita, ndr) e di riconoscere negli altri il plurale di cui anche noi siamo titolari».
Nella poesia «Definizioni di felicità» enumeri i tentativi passati di chiamare per nome l’inafferabile, e l’inconcludenza di una ricerca che si scontra con il dogmatismo e la sua inflessibilità. Ha ancora un senso, oggi, definire cosa sia la felicità o pensi che si debba colorare delle sfumature della speranza più che delle tinte forti della certezza?
«Ogni definizione soffre l’esperienza del limite, del confine, che però nella mia lingua è anche l’orizzonte. Dall’orizzonte non ci sentiamo chiudere, quanto piuttosto dilatare: nello sguardo, nel respiro del cuore, nell’immaginazione. Oggi per me la felicità è soprattutto il senso dell’inizio, l’infinita avventura di cominciare di nuovo, nella vertigine rassicurante che tiene insieme la pazienza e l’attesa».

Aprirsi alla «peripezia di un nuovo inizio» è l’augurio che raccogliamo da un poeta che prende in contropiede il tempo. Un tempo segnato dalla speranza (è il titolo di un’altra breve lirica) che «il dolore sia provvisorio, l’amore sia per sempre». È l’agàpe, intraducibile ampiezza del sentire con il corpo, la mente, i sensi, che potrà – su strade nuove – restituirci alla grandezza della nostra fragilità.