Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  gennaio 24 Domenica calendario

Intervista a Jonathan Franzen

Il 2021, come sappiamo, riserverà alcune piacevoli sorprese dal punto di vista letterario, tra cui il nuovo romanzo di Jonathan Franzen, Crossroads (Farrar, Straus and Giroux), sesto della sua produzione e primo volume di una trilogia intitolata A Key to All Mythologies. È «la storia di una famiglia del Midwest lungo tre generazioni – dichiara in una nota l’editore americano —, nelle quali sono rispecchiate le inquietudini e i dilemmi degli Stati Uniti dalla guerra del Vietnam ai nostri giorni». Insomma, come aveva anticipato Cristina Taglietti su «la Lettura» #474 del 28 dicembre, si tratta di una saga familiare che vede protagonisti gli Hildebrandt e ricorda i tumulti dei Buddenbrook di Thomas Mann, filtrati dall’immediatezza stilistica di Faulkner e Steinbeck.
Previsto per maggio, Crossroads sarà tradotto in autunno da Einaudi, che di recente ha stampato un pamphlet parecchio discusso nei dibattiti social, E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica (traduzione di Silvia Pareschi, pagine 64, e 10). Il testo è corredato di una prefazione in cui lo scrittore statunitense racconta l’incendio e la strage biologica nella riserva di Stiftung in Germania, «uno splendido tratto di rigenerante foresta che ospita lupi, lontre e parecchi uccelli nidificanti». Tracciato con una schiettezza senza falsi pudori, il saggio di Franzen – classe 1959 e autore del celeberrimo Le correzioni, premiato con il National Book Award nel 2001 – invita il lettore a prendere seria consapevolezza dell’«apocalisse climatica» che è esplosa almeno dal 2015. Ciò non significa perdere definitivamente la speranza (sebbene l’aforisma di Kafka in apertura di libro non sia del tutto confortante), ma riacquistare un senso più ampio di amore, di fiducia nella normalità dell’esistenza e nell’impegno quotidiano.
In virtù di un francescanesimo laico e di un’ecologia integrale, Franzen ritiene necessario ridisegnare i termini della questione: «Ogni movimento verso una società più giusta e civile può essere considerato un’azione significativa per il clima».
In «E se smettessimo di fingere?» lei suggerisce di «ripensare a cosa significa avere speranza». Quale potrebbe essere una speranza realistica?
«Per chi non crede in un Dio che ha un piano per noi, il significato della vita di solito si trova nel cercare di aiutare gli altri, in particolare coloro che amiamo. Finché la lotta contro il cambiamento climatico catastrofico sembrava potesse essere vinta, finché era ancora possibile che il mondo tornasse in sé e riuscisse a ridurre drasticamente le emissioni di carbonio, c’erano un significato e una speranza da individuare in quella lotta. Ora che la lotta è impossibile da vincere, dobbiamo ritrovare la speranza in conquiste minori. Il pianeta come lo conosciamo non durerà ancora a lungo, ma nemmeno le persone che amiamo. Questo non mi impedisce di cercare di aiutarle o di avere speranze per loro. “Speranze”, al plurale; non soltanto una grande speranza».
Nel libro parla anche di «gentilezza verso il prossimo e rispetto per la terra». E accenna all’organizzazione comunitaria Homeless Garden Project di Santa Cruz, la città in cui vive. Quali sono le piccole azioni che possono fermare in qualche modo l’«apocalisse climatica»?
«Nella migliore delle ipotesi, azioni locali più piccole riescono soltanto a ritardare la catastrofe, non a prevenirla. Ma queste azioni acquistano un significato in altre dimensioni. Qualsiasi iniziativa capace di promuovere la gentilezza e rafforzare la resilienza sociale o ambientale, ci preparerà per affrontare meglio gli shock climatici che stanno arrivando. Nel frattempo, stiamo aiutando persone, animali e luoghi bisognosi, e questo è sempre un bene di per sé».

Lei pratica con molto interesse il birdwatching. Dietro a questa passione si nasconde una filosofia particolare? Quali sono i volatili che esistenzialmente la attraggono di più?
«Non sono sicuro che il birdwatching raggiunga il livello di una filosofia di vita. È semplicemente una cosa che mi porta grande gioia e soddisfazione. Come San Francesco, ho una predilezione particolare per i piccoli uccelli dal piumaggio marrone, per le allodole e per i passeri. Sono umili, innocui – tranne che per l’insetto occasionale —, cantano canzoni magnifiche e hanno una bellezza sottile che per me è la migliore tipologia di bellezza».
A proposito di San Francesco: anche lui era amante degli uccelli, come ricorda Seamus Heaney in una meravigliosa poesia, «Saint Francis and the Birds»...
«Francesco è il mio santo preferito. Poiché non sono credente, mi è permesso di ammirarlo anche più di quanto ammiri Gesù. Non si è limitato a praticare un amore universale per l’umanità; praticava un amore universale per tutte le creature. E, quindi, aveva un’affinità speciale per gli uccelli che sono i rappresentanti più visibili e sempre presenti del mondo naturale. Generalmente sono scettico rispetto a molti miracoli che si leggono nella Bibbia, ma credo che le rondini stessero ascoltando Francesco quando chiese loro di tacere».
Pensa che l’etichetta critica «New Sincerity», che le è stata attribuita, possa essere la chiave d’interpretazione di molte sue opere, compreso «Le correzioni»?
«Se la sincerità implica un’assenza di ironia, allora no. Non potrei vivere o scrivere senza ironia. Quando immagino una persona “sincera”, vedo qualcuno che non sta ridendo».