Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2021
Biografia di Lino Guanciale raccontata da lui stesso
Se parla di libri inanella una serie di citazioni, richiami, passioni, ispirazioni da critico letterario; se tocca lo sport, il rugby diventa una metafora della vita, o almeno una scuola dalla quale attingere; se fa riferimento al suo campo, quello attoriale, Volonté si tramuta in paradigma ed Elio Petri torna al ruolo – purtroppo spesso dimenticato – di regista da studiare, anche come riferimento sociale; se poi uno gli nomina Berlinguer, allora è necessario il taccuino, mente sgombra e tomi di riferimento, perché può incrociare la critica gramsciana con il marxismo, misto ai dilemmi atavici della sinistra.
Lino Guanciale sorride, scherza, ma neanche troppo: lui è in missione, è consapevole, riservatissimo, teme più la propria coscienza che i carichi sulle spalle, e con il “suo” commissario Ricciardi (produzione Rai fiction, da domani sera su Rai1) ha in comune un’attitudine alla quotidianità non figlia di questo tempo.
Anni fa ha dichiarato: “Il mio carattere forte è stato limato con pazienza”.
Si riferisce a quello che riguarda me?
Sì.
Qui è fondamentale la gavetta, poi la vita e l’esperienza in generale; (ci pensa) la determinazione è una virtù enorme, ma va associata alla pazienza e alla capacità di mettersi in una posizione dialettica; chi è portato alla testardaggine trova in questa virtù il proprio principale nemico. Su questo punto è stata fondamentale la scoperta e lo studio di Brecht.
In particolare…
È tra le sue pagine che ho trovato i vari livelli di senso del termine ‘dialettica’, ma in sostanza la realtà è trasformabile e si può incidere anche sulla propria indole.
Chi le ha consigliato Brecht?
Inizialmente l’Accademia Silvio D’Amico; quando mi sono iscritto ero un neofita assoluto, non ero quasi mai andato a teatro, anche perché la mia città, Avezzano (cittadina dell’Abruzzo), non ne ha avuto uno per lungo tempo; (sorride) il mio approccio al palco era solo quello scolastico.
E poi?
Brecht l’ho approfondito con il mio amico e sodale Claudio Longhi, oggi direttore del Piccolo di Milano: con lui lavoro da 17 anni; (ci pensa) comunque non lo prendo come esempio di vita.
Cosa non la convince di Brecht?
Come tutte le grandi personalità egoiche, ha trattato molte esistenze intorno alla sua come se ne fosse il padrone, e lo trovo irrispettoso: se “dialettica” è una parola chiave, l’altra resta “libertà”, e si impara attraverso la maturità. Questo concetto me lo ha trasmesso Sanguineti.
Il suo lavoro è pieno di personalità egoiche.
Ovviamente sono tante, ma non credo molte di più rispetto ad altri ambienti; il mestiere dell’attore uno lo approccia o per volontà di esibizione o per trovare una strada di comunicazione con il prossimo.
Lei sarà nella seconda lista…
Davvero, sono arrivato al teatro relativamente tardi, a 19 anni, nell’anno della Maturità, quando mi sono iscritto a un corso solo per togliermi uno sfizio, per non vivere con il rimpianto di non averci provato.
Qual era la sua strada?
Medico come mio padre.
Come andava a scuola?
Bene, soprattutto grazie a curiosità e memoria: amavo gli insegnanti che si affidavano ai testi invece di sciorinare nozioni.
Voto finale?
Sessanta sessantesimi, eppure ho studiato realmente solo per l’esame di Maturità, gli altri anni mi sono sempre ridotto all’ultimo, con nottate insonni per prepararmi alle interrogazioni.
Conta il risultato.
Sì, come sostengono soprattutto gli allenatori della Juventus; (sorride) tifo per la Fiorentina.
Ad Avezzano?
Eredità di mio padre, sono cresciuto con l’idea che fosse la squadra che “tremare il mondo fa”, più del Bologna.
Avezzano ora ha due personalità di rilievo: lei e Gianni Letta.
Bella polarità, in ogni senso.
Un po’.
Forse ci unisce solo l’amore per il teatro, sul resto niente.
A Roma si è mai sentito un provinciale?
Sempre, ma in qualche modo lo rivendico: amo molto la città, provo un’affinità elettiva, sto a mio agio con rumore e dinamicità, anche quando non ne prendo parte, però non ho trovato una “patria”; la patrie alla francese. La terra natia resta Avezzano.
C’è pure un ma…
Chi arriva in città da piccoli centri ha un modo diverso di misurare la quotidianità e una differente attitudine all’umiltà: può essere una risorsa.
Un suo difetto.
Testardo in maniera imbarazzante, in qualche modo l’ho confessato prima.
Permaloso?
Come tutti gli abruzzesi, un po’ alla Flaiano: permaloso e autoironico allo stesso tempo.
Flaiano docet.
Di lui sottoscrivo quasi tutto e mi diverto molto a ripescare tra le sue carte.
Per la carriera a cosa ha rinunciato?
Quando stai crescendo artisticamente e professionalmente, dire dei “no” è spesso più utile dei “sì”; (cambia tono) quando sei sull’onda che ti sta portando in alto, devi sottrarre qualcosa per recuperare il substrato affettivo e relazionale; uno dei grandi pericoli per l’attore è che il proprio lavoro diventi il terreno esclusivo della vita.
Non va ai party, niente pubbliche relazioni.
Agli inviti spesso la mia replica è: “Devo lavorare”. E forse, a livello inconscio, questa risposta deriva dalle priorità istintive: realmente non ho mai rinunciato a una serata sul palco o allo studio.
Una stupidaggine, mai?
(Accento romano) Potrei fa’ ‘n elenco immane, proprio per questa necessità di mettere insieme più situazioni belle.
Esempio.
Per molti anni non ho curato gli amici di quando ero ragazzo, magari i compagni del rugby; e poi l’aver avuto paura di coltivare prima la mia passione per il teatro: se avessi iniziato negli anni precedenti avrei preparato chi mi stava attorno.
I suoi genitori?
Hanno dimostrato una capacità straordinaria di accompagnarmi pure su una strada che gli incuteva ansia; dopo il test superato a Medicina, rivelai a papà le mie intenzioni, e lui dopo uno sbigottimento iniziale ha cambiato prospettiva: “E adesso come ti aiuto?”
Ha portato a teatro La classe operaia va in paradiso. Me lei è molto differente da geni dannati come Volonté o Fantastichini…
Con Ennio ho lavorato nel mio primo film, ed è stata un’esperienza tanto divertente quanto formativa: lui era capace di un rigore fortissimo come di un divertimento raro; alternava autorevolezza e gioco; (ci pensa) poi quasi tutti gli attori della mia generazione sono cresciuti con il culto di Volonté.
Cosa legge?
Molta narrativa e saggistica, soprattutto di ambito storico e politico; (sorride) sul comodino ho sempre un libro di Sanguineti, a mo’ di santino, e Apocalittici e integrati (di Umberto Eco, ndr).
Il suo personaggio letterario.
Il principe di Homburg di Kleist, Sigismondo de La vita è sogno di Calderón de la Barca e Julien Sorel de Il rosso e il nero.
Se cita pure Proust abbiamo l’en plein.
Allora aggiungo Musil e Canetti: vanno ricordati sempre.
Il suo incontro con Sanguineti.
Stavamo preparando un testo monstre di Edoardo, Storie naturali; mentre sono sul palco, al buio, vedo una figura inconfondibile e penso: “Quella sembra la silhouette di Sanguineti che ho visto in un suo libro”.
Poi…
Mi sono accorto che era proprio lui, e ho scoperto una persona di una gentilezza unica, con un’umiltà che non tradiva nulla dei propri mezzi. Si è pure presentato.
E lei?
Non ci volevo credere, gli avrei voluto rispondere: “So chi è, lei è lo stadio più avanzato del secondo Novecento poetico italiano”; con il tempo ho poi scoperto che era simpatico e in grado di godersi i lati belli della vita.
Quali sono?
Il gelato alla mela verde con sopra il Calvados.
Lo beve?
Con lui ne ho appreso l’esistenza, la prima volta che l’ho provato mi ha sdraiato; ancora oggi, se voglio pensare a lui, lo ordino.
Ha lavorato con Proietti.
E qui si torna all’apocalissi e l’integrazione: Gigi era mostruosamente potente, capace di un’empatia non comune
Che lezione le ha lasciato…
Era incredibile ammirarlo prima dell’entrata in scena: emozionato più di noi, agitato, a chi per consolarlo gli ricordava “guarda che il pubblico ti adora, a prescindere”, lui rispondeva: “Regà, al palcoscenico non gli devi mai dare del tu”.
Quindi, lei…
In ansia prima del sipario o del ciak; se non lo sono mi preoccupo.
Questa estate si è sposato in segreto. Il web inferocito.
Da un punto di vista è stato interessante verificare le conseguenze, ma il matrimonio è un momento privato e personale e tale deve restare.
Primo set…
Con Carlos Saura regista, interpretavo Mozart: il giorno prima, per la prova costume, per errore mi sono messo in coda con le comparse e pensavo fosse un atteggiamento democratico; poi mi sono venuti a recuperare.
E…
Ho vissuto quel set con la convinzione di dovermela godere: ero certo si fossero sbagliati a prendermi, così mi ripetevo “e quando ti ricapita”.
Poi Woody Allen.
(Ride) Ha pure pronunciato il mio nome senza sbagliarlo, e dopo mi ha chiesto se una battuta che aveva scritto mi suonava bene. Io spiazzato.
Risposta?
Ho cercato di risultare un professionista: “Maestro funziona, se poi trovo altre soluzioni gliele propongo”; dopo quel ciak non l’ho più incontrato molto, tutti noi sul set avevamo la sensazione che fosse a Roma più per una bella vacanza che per girare, però ho lo stesso imparato tanto.
Tipo?
Gira in una maniera tale che uno quasi non capisce dov’è la macchina da presa e si è costretti a muoversi come a teatro; poi lo incrociavo mentre saliva su delle macchine che lo portavano al ristorante per assaggiare una nuova cacio e pepe.
Il supereroe.
Da ragazzo Cattivik, poi Lomu (il più grande giocatore di rugby) e mio fratello: ha due anni in meno di me, è psicologo e riesce a prender la vita con responsabilità e lievità.
La pornostar del cuore.
Qui giocano le memorie puberali, quindi Moana.
Enrico Berlinguer.
Uno degli ultimi retaggi di una politica in grado di non utilizzare l’urlo come strumento persuasivo (e inizia una lunghissima analisi su rivoluzione e riformismo, matrice marxiana, la Nato, il pensiero di Elio Petri e ovviamente quello gramsciano); comunque non sono un fan della linea del Migliore (soprannome di Togliatti).
Uno sfizio che si è tolto.
Con il primo stipendio ho comprato un regalo ai miei e mi sono pagato le tasse universitarie.
Qualcosa di biecamente materiale?
Una Alfa Romeo Giulietta, non d’epoca; era un piccolo sogno, non troppo borghese, più proletario.
Niente cabrio.
Alcuni colleghi mi hanno preso in giro.
Chi è lei?
Cacchio, questa è difficile; un flâneur, ed è un modo di partecipare alla vita con passione.
Spesso l’intervista viene chiusa da una canzone. Con lei vedo bene Guccini…
Allora La locomotiva.
(“Non so che viso avesse, neppure come si chiamava, con che voce parlasse, con quale voce poi cantava. Quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli, ma nella fantasia ho l’immagine sua: gli eroi son tutti giovani e belli”).