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 2021  gennaio 24 Domenica calendario

Gli uomini con la gonna di Louis Vuitton

Il futuro della moda maschile sta – anche – in una gonna da uomo. Nessuna gag o uscita a effetto nella collezione per il prossimo autunno- inverno di Louis Vuitton disegnata da Virgil Abloh. Stavolta, il designer ha deciso di lavorare sui classici del guardaroba e su quei pezzi così comuni da rientrare nella categoria degli Un-designed. Vale a dire quei capi per Abloh così popolari da non avere un’origine precisa. Tra gli altri ci sono l’eskimo, le vestaglie e, per l’appunto, le gonne. Non c’è nulla di femminile nei modelli di Abloh: a dargli significato è il contesto e, secondo il creativo, è il momento di abbattere archetipi e stereotipi.
L’architetto, lo scrittore, il commesso: a ogni professione la società attribuisce uno stile. Ma chi lo dice? Nella video-sfilata ambientata in un’asettica sala, si aggirano personaggi dall’abbigliamento decontestualizzato, dal vagabondo in gessato all’uomo d’affari con il costume tradizionale ghanese, un omaggio alle origini di Abloh. Il motto che campeggia sulle borse è “Tourist vs. purist”: il purista non ammette contaminazioni e reputa l’originalità un valore assoluto; il turista mescola, riprende e aggiorna a seconda del momento. È ovvio che Abloh si sente un “turista”, rispondendo così a chi lo accusa di scarsa originalità. Forse non ha tutti i torti: mai come oggi certe divisioni paiono più anacronistiche che mai. La questione alle sfilate digitali parigine sembra non tanto il come vestire gli uomini, quanto il far sì che ritrovino il piacere di farlo. Interessante la soluzione di Kim Jones, che da Dior Men individua nelle uniformi di gala il corrispettivo al maschile della haute couture da donna simbolo della maison. Gli alamari, i ricami d’oro, i bottoni gioiello, le medaglie; è un mondo che si presta bene al gioco del designer inglese, che sta attento a stemperarne il lato marziale a favore di linee più quotidiane e materiali più morbidi, così da rendere quell’immaginario vero e portabile. Lo aiuta la collaborazione con il pittore inglese Peter Doig: sono suoi i motivi sui soprabiti svasati di raso, i cappelli di feltro e pure le scenografie dello show. Coinvolgere uno o più artisti è molto in voga nel menswear. Tra i più convinti sostenitori c’è anche Jonathan Anderson, che per Loewe ha addirittura creato il catalogo di una mostra “immaginaria” di Joe Brainard, applicando poi i suoi collage e i suoi disegni alla collezione. Il risultato, con le stampe che traboccano di viole del pensiero, foto e segni astratti è gioioso, il che di questi tempi non è scontato. Evidente l’omaggio alle sottoculture del passato, dai punk ai figli dei fiori: destinatari di questi riferimenti sono i più giovani, quelli che meno hanno vissuto in questi mesi, spiega lui. Forse possono trovare nuovo slancio rivedendo quei momenti di rottura. Anderson non ha dubbi: se si fanno bei vestiti, qualcuno li indosserà.
Anche Paul Smith guarda al passato, ma lo fa attraverso i suoi motivi e i suoi codici. Lui è una colonna portante dello stile anglosassone, quindi è comprensibile che voglia puntare su una collezione il più possibile “sua”. Il suo pragmatismo dà vita a un’estetica rassicurante: non c’è nulla che non si sia già visto sulle sue passerelle, dai cappotti a quadri alle camicie fiorate ai completi stretti dei Mods. Dunque il suo pubblico sa già che funzioneranno.
A sorpresa pure da Hermès la fascia demografica di riferime nto pare essersi abbassata. Véronique Nichanian, designer dell’uomo della maison, presenta la collezione con tre piani sequenza diversi che seguono dal vivo in contemporanea i modelli mentre si muovono attraverso il Mobilier National, dove sono conservati gli arredi del Governo francese. Giubbotti impermeabili, blouson da moto, anorak, pantaloni da tuta: tutto molto poco formale. La stilista fa leva sulla libertà estetica che negli ultimi mesi ha cancellato le differenze d’età e di stile, e forse non ha torto: sembra che ancora per un po’ giacca e cravatta non serviranno.