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 2021  gennaio 24 Domenica calendario

In morte di Larry King

Matteo Persivale, Corriere della Sera
«Se vieni da Brooklyn, come me, tutto il resto del mondo è Tokyo» diceva Larry King, re delle interviste tv e santo patrono della Cnn scomparso ieri a Los Angeles all’età di 87 anni dopo settimane di ricovero al Cedars-Sinai a causa del Covid-19. E Lawrence Harvey Zeiger, famiglia ebrea ortodossa, orfano di padre in tenera età, diventò Larry King per scoprire il mondo. Riuscì a farlo senza quasi mai lasciare uno studio di registrazione, prima alla radio poi in tv, per 63 anni. Il mondo l’ha conosciuto negli anni ’80, sulla Cnn che si affacciava alla nuova tecnologia del satellite, il vecchio ragazzo di Brooklyn che intervistava tutti i grandi del pianeta.
Sette mogli, cinque figli, cinque nipoti e quattro pronipoti, losangelino d’adozione, per decenni fece colazione tutte le mattine alla tavola calda vecchio stile di Nate’n’Al a Beverly Hills, «il mio ufficio». Stesso tavolo, stesso menu leggero, i piatti kosher che gli ricordavano l’infanzia. Chi aveva il coraggio di avvicinarlo — turisti intrepidi, o magari un giovane giornalista in trasferta — scopriva due cose: che King non portava le bretelle fuori dallo studio (erano il suo costume di scena), e che il più grande intervistatore del mondo cominciava, d’istinto, a intervistare il fan.
Nel mondo di Re Larry tutto faceva spettacolo, tutto faceva tv se davanti all’inconfondibile microfono-amuleto anni Trenta della Rca c’era lui. Dal 1985 al 2010 sulla Cnn demolì record globali di ascolto, campione del mondo di curiosità. Affascinato dal trash (inspiegabile la fissazione per i medium), vinse premi prestigiosi, e giganti come Dan Rather e Don Hewitt (inventore di «60 minutes» format copiato ovunque) lo consideravano un maestro. Dal Dalai Lama a Nelson Mandela («Il più grande di tutti», che lo abbracciò e lo invitò a casa sua), ogni presidente americano da Ford a Trump, Blair e Gorbaciov e Arafat e Gheddafi («L’ospite peggiore»), la reunion dei Beatles con Paul e Ringo e le vedove di John e George, un Putin debuttante nel 2000 molto meno a suo agio in tv del Putin di oggi: il mondo si sedette, in mondovisione, al tavolino di Larry King Live. E cominciò a parlare, parlare, parlare a quell’omino in bretelle con gli occhialoni extralarge.
Riteneva la distanza ravvicinata con l’ospite essenziale: «Non imparo niente se a parlare sono io». Lascia momenti di televisione unici: il bacio sulla bocca di Marlon Brando, Al Gore che presenta l’accordo commerciale Nafta agli americani in un dibattito con Ross Perot al cospetto di Re Larry, Lady Gaga in bretelle, la dolcissima Debbie Reynolds che si lancia nelle imitazioni cattivissime delle colleghe della grande Hollywood, il comico Jerry Seinfeld che s’imbizzarrisce («Avevo lo show numero 1! Avevo 75 milioni di spettatori!»).
L’uomo che intervistava tutti non parlava mai di sé, peccato: dalla trattativa top secret per l’intervista impossibile con Osama bin Laden (sfumata in extremis, ma non si disperò) alla volta che re Hussein di Giordania lo cercò al ristorante (ancora non esistevano i cellulari), Sinatra che cantava solo per lui in camerino, King era una riluttante macchina da aneddoti. Il lungo viaggio intorno al mondo con la Cnn finì dopo 25 anni nel 2010 (sostituito con l’inglese Piers Morgan, tagliato dopo soli 4 anni): ebbe il tempo di fondare una tv, Ora, con il miliardario messicano Carlos Slim, e di avventurarsi su Internet, apparire su Russia Today e Hulu. La cartella clinica spaventosa che portava sportivamente — infarti, ictus, cinque bypass, un tumore — presentò il conto definitivo nell’ultimo decennio: andava in onda magrissimo, la voce meno stentorea.
L’ultima triste puntata, il 2020: la doppia tragedia della scomparsa di due figli a poche settimane l’uno dall’altro. Anche la tavola calda Nate’n’Al ha chiuso definitivamente, non per lutto ma per Covid, l’insegna arancione al neon spenta e polverosa nella luce dorata tra l’oceano e il deserto, la saracinesca abbassata omaggio triste a re Larry che non c’è più.

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Federico Rampini, la Repubblica
Le bretelle più famose nella storia del giornalismo ci hanno lasciato. Larry King è morto ieri a Los Angeles all’età di 87 anni. Era stato ricoverato per coronavirus, era un soggetto a rischio dopo un ictus e problemi polmonari che lo avevano colpito nel 2019. King è stato per decenni un’icona della tv mondiale e l’inventore di un “genere” d’intervista così popolare che nessun americano era una vera celebrity finché non veniva consacrato da un invito nel suo studio.
Il giorno del suo addio alla Cnn, nell’ultimo show a lui dedicato il 16 dicembre 2010, fra tante star anche Barack Obama aveva registrato un cameo in suo omaggio. King era diventato talmente famoso da essere chiamato a recitare la parte di se stesso in decine di film e serie televisive. Ma l’ascesa verso la notorietà e la gloria non era stata facile.
Larry nasce a Brooklyn in una famiglia povera, i genitori sono ebrei ortodossi immigrati dall’Austria e dalla Bielorussia. Il padre muore quando lui ha nove anni e la famiglia sopravvive grazie ai sussidi del welfare. L’esordio nel giornalismo è la gavetta all’antica: cronista sportivo per una radio locale; poi conduttore di una classica “notte radiofonica” animata dalle telefonate degli ascoltatori. Quest’ultima formula gli riesce così bene che segna la sua consacrazione nazionale. Tante disavventure personali e una vita a dir poco disordinata – otto matrimoni, due bancarotte provocate dal vizio del gioco, un arresto per frode – non gli impediscono di essere arruolato da Ted Turner agli albori della Cnn nel 1985. La sua prima intervista è con il governatore di New York Mario Cuomo, il padre dell’attuale, Andrew. Per più di un decennio il suo Larry King Live fu il programma più popolare della Cnn, un network che ebbe il suo battesimo di fuoco come “vetrina globale” delle breaking news 24 ore su 24 con il massacro di Piazza Tienanmen nel 1989 e la prima guerra del Golfo nel 1981. Ma a differenza dei suoi colleghi King non si considerava un vero giornalista. I critici – tanti – lo accusavano di evitare le domande scomode, di non mettere mai a disagio i suoi interlocutori e proprio questo atteggiamento amichevole contribuiva ad allungare la fila delle celebrity che lo corteggiavano per ottenere un invito nel suo studio. Lui non negava lo stile leggero, talvolta frivolo, sempre compiacente: battezzava il proprio programma come “infotainment”, a metà strada fra informazione e spettacolo. Il suo declino però non è dovuto alla concorrenza di un giornalismo migliore. La caduta negli indici d’ascolto negli ultimi suoi anni alla Cnn coincise con l’ascesa di talkshow urlati, militanti e faziosi: da Bill O’Reilly a destra (Fox), a Anderson Cooper (Cnn) e Rachel Maddow (Msnbc) a sinistra. A posteriori si rivaluta proprio quel “salotto della nazione” dove King accoglieva democratici e repubblicani, progressisti e conservatori, senza avere la missione di esaltare o demolire l’ospite di turno. Ma le nuove regole feroci del business televisivo negli ultimi anni hanno privilegiato un giornalismo tribale e King è stato disertato: il suo tentativo di rinascere nell’universo digitale con le tv in streaming (Ora Tv, Hulu) producendo lo show Larry King Now, è stato un fiasco. Nel declino ha perfino rischiato di compromettersi con il principale canale della propaganda russa, collaborando con Russia Today. King è stato anche un “influencer” ante litteram nell’abbigliamento: le camicie a strisce larghe e soprattutto le bretelle colorate con le fibbie di cuoio hanno inventato un look, imitato da molti soprattutto nel mondo dei media. Non era proprio un precursore. La storia delle bretelle come status symbol culturale in America risale allo scrittore Mark Twain, poi come indumento trasgressivo da hooligan rimbalza in Inghilterra con Arancia meccanica per tornare negli Stati Uniti dove Diane Keaton ne fa un accessorio femminile-femminista. Ma se le vedete indosso a tanti giornalisti, è tutto merito del grande Larry. Al quale vanno riconosciuti degli “scoop per caso” entrati nella storia: ad esempio l’annuncio in diretta della candidatura indipendente del miliardario protezionista Ross Perot, nel 1992, un precursore di Donald Trump.

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Gianni Riotta, La Stampa
Era noto come Larry King, ma si chiamava Lawrence Zeiger, suo padre aveva una trattoria a Brooklyn, morì presto e la mamma tirò su i figli «grazie ai sussidi del governo, ecco perché sono progressista». Il cognome King lo scelse «quando ebbi il primo lavoro, era il 1957, avevo 24 anni, mi diedero un posto alla radio WAHR di Miami Beach, Florida, non potevo debuttare come Zeiger, i cognomi ebrei non andavano. Diedi un’occhiata all’insegna di un negozio di liquori, "King’s", e nacque Larry King».
Sette matrimoni, interviste con sette presidenti americani, star di Hollywood, show televisivi con milioni di spettatori nel mondo, le bretelle in vista copiate da schiere di wannabes ovunque, se ne va a 87 anni Larry King, il giornalista americano che non era solo il re delle interviste, era in sé un personaggio da pellicola sui giornalisti di un tempo, whiskey, sigarette, automobili, lusso, night club. Lo ha ucciso il Covid, piaga del nostro tempo che avrebbe voluto raccontare come ogni titolone dal ’57.
La tecnica che lo rese famoso sarebbe bocciata dalle scuole di giornalismo, «Non mi preparo mai sul personaggio che ho davanti, faccio le domande che farebbero gli spettatori da casa: funziona» raccontava King, voce roca per il fumo che gli era costato un cancro al polmone, seguito da un infarto, un ictus e infiniti malanni, sempre curati tornando al microfono. Così chiede a Ross Perot, imprenditore che sognava di candidarsi alla Casa Bianca, 24 anni prima di Trump, «Che ha in mente?» e Perot, mandando in tilt la politica Usa: «Penso di correre da indipendente per la presidenza…». Interroga il leader russo Vladimir Putin, dopo la sciagura che aveva distrutto nel 2000, tra voci di complotti, un sommergibile atomico, uccidendo 118 marina: «Che è successo» e il capo del Cremlino replica algido «È affondato». Non prepararsi era il trucco di King per lasciare esporre l’interlocutore, tirandone fuori tic e personalità. Al celebre showman Jerry Seinfeld dirà «Come mai la Nbc ha cancellato il tuo show Seinfeld?» e il momento resta celeberrimo, il popolare attore sbarra gli occhi, «L’ho deciso io! Non lo sai? Ma quale chiuso loro…».
Il semiologo Umberto Eco parlava di «effetto Mike Bongiorno», la capacità del pioniere della tv italiana di far sentire alla pari il pubblico e King usava il modello alla perfezione. Quando Ted Turner lancia il canale via cavo CNN, le interviste di King diventano spazio di relax, nell’incalzare delle notizie 24 ore su 24. Ride col presidente Bush padre, scambia il Dalai Lama per un musulmano «Lei prega? E chi prega?», chiacchiera come dal barbiere con il dittatore Gheddafi e Lady Gaga, Marlon Brando lo bacia in fronte, sotto il ciuffo Pompadour, cotonato indietro alla moda dei cubani Anni 50 a Miami, quando la sera giocava a poker.
E le carte sono costate care a King, un processo, una condanna, debiti, accuse di assegni a vuoto, raggiri. Con le donne ebbe successo, anche troppo, sette matrimoni con sei spose, una portata al «Sì» due volte, «corteggiarle è la cosa più bella», con strascico di avvocati, spese per gli alimenti, polemiche sui giornali del gossip e figli. Poco gli importava, poteva intervistare dei pupazzi animati, Miss Piggy o la rana Kermit, e ammetteva candido «Se torno in albergo e mi dicono "Ci sono due messaggi di emergenza Mister King, uno da Cnn e uno da sua moglie", richiamo prima la redazione, poi mia moglie».
«Ero povero da bambino a Brooklyn e quell’ombra mi ha sempre inseguito» confessava. Restare in prima serata era il suo vero cruccio, finì perfino a RT, la rete di propaganda di Putin, fedele al motto dello scrittore Gore Vidal «Sempre andare in tv». Sempre, a ripetere, in bretelle, domande qualunque, a O. J. Simpson, appena assolto dall’accusa di avere ucciso la moglie, «Hey, come ti va?», al padre della bomba all’idrogeno, Edward Teller, «Perché gli studenti odiano la fisica?».
Quando la fama non gli bastava, si inventava nuovi aneddoti, si finse amico d’infanzia, a Brooklyn, dell’asso del baseball Sandy Koufax, e quando Koufax negò «Larry? Mai visto da bambini», King non batté ciglio: «Mi piace raccontar storie è vero, ma a una domanda non ho mai risposto: chi sono io?» Larry King o Lawrence Zeiger?