Il Messaggero, 24 gennaio 2021
Storia del morbo di K.
Era una malattia feroce, molto contagiosa. Una sindrome neurodegenerativa fulminante, capace di presentarsi all’improvviso con sintomi banali e trasmettersi con un semplice colpo di tosse. Un virus dal nome inquietante, morbo di K., e una caratteristica unica nella storia della medicina: essere una malattia completamente inventata.
Diffusa a macchia d’olio in tutta Roma, nel periodo che andò dal rastrellamento nel ghetto ebraico del 1943 fino alla liberazione della città nel giugno 1944, la cosiddetta sindrome di K. fu la geniale trovata di tre medici dell’Ospedale Fatebenefratelli Giovanni Borromeo, Adriano Ossicini e Vittorio Emanuele Sacerdoti – per nascondere e mettere in salvo gli ebrei ricercati dalle temibili SS di Herbert Kappler. «Quando ci fu la retata, il 16 ottobre, scappammo per una sera in una pensione in via Giolitti, e poi da una zia a Velletri racconta Giacomo Sonnino, tra i protagonisti del documentario di Stephen Edwards dedicato all’inedita storia, Sindrome K Il virus che salvò gli ebrei (oggi alle 21.25 su Nove e discovery+) poi mia mamma sentì al telefono il nostro pediatra, il professor Giuseppe Caronia, che le propose di nasconderci in ospedale. La sua segretaria era una suora: ci disse che saremmo stati ricoverati per il morbo di K, e così fummo internati nei sotterranei, nel reparto malattie infettive».
IL SENSO DEL PERICOLO
Non tutti, all’interno degli ospedali, erano al corrente della falsa malattia: «Chi poteva si teneva alla larga da quel reparto. Lo stesso Caronia ne era diventato direttore per punizione. Aveva una cattedra di medicina pediatrica, ma i fascisti gliela tolsero e per sfregio lo mandarono là dove non voleva andare nessuno». Sull’esempio del Fatebenefratelli anche altre strutture ospedaliere romane, fra cui il Policlinico Umberto I, si adoperarono per nascondere fuggitivi ebrei, «ma anche persone renitenti alla leva o antifascisti», tutti con la stessa cartella clinica.
«Le SS non osavano avvicinarsi, pensando che non valeva la pena rischiare: il morbo di K ci avrebbe comunque uccisi. Il problema più grande per noi era trovare da mangiare. Ogni tanto con mio fratello uscivamo dai sotterranei per fare cicoria, che poi cucinavamo con il carbone rubato alle cucine dell’ospedale».
Sonnino ricorda la difficoltà dei medici «eroi» nel gestire la situazione anche durante il bombardamento americano: «Il giorno del bombardamenti di San Lorenzo cadde una bomba vicino all’ospedale. Morì anche un cavallo: ricordo la gente che usciva in strada per assaltarne la carcassa e procurarsi del cibo».
Il nome del morbo, K., era un messaggio in codice tutto da decifrare: da una parte alludeva, ironicamente, ai nomi di Kappler e Kesselring, il comandante delle forze armate naziste in Italia, dall’altra evocava le parole tedesche Kopf, testa, e Krebs, cancro. Abbastanza per indurre, sia pure in maniera subliminale, un senso di mortifero pericolo negli ufficiali nazisti. Solo in un caso, racconta il documentario di Edwards, le SS vollero andare a fondo.
Come spiega il dottor Ossicini nel film, durante l’inverno del 1943 alcuni ufficiali nazisti si presentarono al Fatebenefratelli insieme a un medico tedesco, per constatare l’effettivo stato di salute dei ricoverati. Ma il loro convoglio, per una fortunata coincidenza, arrivò nella struttura in ritardo, permettendo al dottore italiano di istruire i presunti malati a «tacere e tossire», per impressionare i visitatori indesiderati.
Il trucco funzionò e il Fatebenefratelli riuscì così a salvare, grazie a quella malattia immaginaria, più di cinquanta persone. «Non so quanti fossimo là dentro, perché al Policlinico eravamo divisi tra corsia e sotterranei ricorda Sonnino ma so che siamo stati ricoverati da ottobre fino a giugno. Io, che avevo 8 anni, avevo capito che scappavamo. Ma non sapevo da cosa. Poi, con il tipico senso pratico dei bambini, mi sono adeguato».