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 2021  gennaio 23 Sabato calendario

Intervista a Brian Selznick

«All’inizio della pandemia ero a New York, da solo. Non riuscivo a lavorare, e mi sono dedicato a delle opere astratte, non sapevo cosa significassero. Solo dopo ho capito che quel che avevo fatto in quel periodo di paura e incertezza mi ha insegnato a tornare al lavoro con qualcosa di nuovo. Tutto nasce da questa dinamica: guardare indietro, poi innovare». Seduto su un divano, in una conversazione via Zoom, Brian Selznick ci porta subito nella sua mente, la grande officina in cui, tra disegni a matita, ricordi e spezzoni di vecchi film, nascono le storie che l’hanno reso non solo un autore bestseller, ma un artefice di mondi immaginari. Dalla finestra della stanza in cui è seduto entra la luce di Roma, dove è arrivato per restare fino all’estate insieme al marito, docente universitario. Sta lavorando a distanza con Christopher Wheeldon a un musical tratto da La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, che Martin Scorsese ha portato al cinema nel 2011 facendo incetta di Oscar e Golden Globe, e festeggia il trentennale de Il segreto di Houdini.
Un esordio in cui, ci svela ora, il vero segreto erano i sogni e i traumi della sua infanzia, trasformati in una fantastica avventura.
Ne “Il segreto di Houdini” il giovane protagonista è così affascinato dal celebre mago che finisce per incontrarlo. Che cosa c’è di lei in quella sua prima storia?
«Da ragazzo adoravo Houdini: era un uomo pragmatico che donava agli altri la meraviglia; sapeva uscire da qualsiasi gabbia, chi non vorrebbe poterlo fare? A dieci anni, l’età di Victor nel libro, ebbi un’operazione al torace. Restai per mesi immobilizzato, con una sorta di busto, in quell’età liminale tra l’infanzia e l’adolescenza in cui cominci a saggiare indipendenza e desideri. Credo che nella vita di ciascuno ci sia un’età essenziale: la mia è sicuramente i dieci anni. I miei personaggi successivi, penso a Hugo Cabret ma anche a Ben e Rose de La stanza delle meraviglie sono un po’ più grandi. Come se avessi illustrato la mia stessa crescita in slow motion».
La tecnica di disegno che usò è ancora un suo tratto distintivo.
«In realtà Houdini è nato come un progetto di scultura mentre frequentavo la Rhode Island School of Design. Solo molti anni dopo, quando lavoravo in una libreria per ragazzi, è diventato un libro illustrato. L’ho disegnato e scritto, fotocopiato e mandato per posta agli editori, finché Random House non decise di pubblicarlo. Da allora la mia tecnica è rimasta la stessa: amo i dettagli, amo il tratteggio incrociato, costruisco l’immagine attraverso le linee. Quando ero piccolo, ero affascinato dalla Vergine delle rocce di Leonardo, dalla gestualità dei personaggi, come se comunicassero tra loro con una sorta di linguaggio segreto.
Copiai il suo studio dell’angelo e conservo ancora quello schizzo».
Già disegnava così.
«In Hugo Cabret e ne Il tesoro dei Marvel si distingue il tratteggio.
Sono stati fatti in miniatura, a un quarto della dimensione in pagina, poi ingranditi. Questo enfatizza la mano dell’artista ma anche gli sbagli, infatti molti illustratori fanno il contrario. Per le mie copertine di Harry Potter invece i disegni sono più sfumati, più lisci, a grandezza effettiva. Anche nel mio nuovo libro che esce a settembre non ho usato la miniatura. Tuttavia spero che si veda ancora la fattura».
Anche nel suo rapporto con il cinema, che ha prodotto un risultato magnifico come “Hugo Cabret”, lei privilegia l’epoca del grande artigianato.
«Come saprà, il grande produttore di Hollywood David O. Selznick era cugino di mio nonno. Non ci siamo conosciuti, ma questa parentela ha reso il mio rapporto con il cinema qualcosa di molto intimo. Da piccolo mi piacevano i film di fantascienza, i monster movie in bianco e nero come King Kong o
Frankenstein: grandi creature che non vengono capite, rese mostruose dalla paura di chi li circonda; qualcosa, nella mia mente di ragazzino gay, risuonava in quelle storie. E amavo le invenzioni: pensi a Il Mago di Oz, a quel passaggio geniale dal Kansas in bianco e nero dell’inizo al technicolor del regno di Oz. Un’altra cosa che torna spesso nei miei libri e deriva dall’amore per il cinema degli esordi, e per il teatro – volevo fare lo scenografo – è l’immagine delle tende che si aprono. Ma in realtà è soltanto con Hugo Cabret che sono diventato consapevole del mio subconscio filmico. Non solo ho fatto ricerca guardando i capolavori francesi degli anni Trenta, come L’Atalante di Jean Vigo, ma ho studiato Hitchcock, il suo modo di muovere la telecamera per farti seguire un indizio, e ho cercato di tradurre questi meccanismi nella grammatica del libro. Penso abbiano funzionato, perché Martin Scorsese le è restato fedele in molte scene del film».
In che modo il successo di “Hugo Cabret” ha cambiato la sua vita?
«In tutti i modi possibili. Mi ha dato molte possibilità, tra cui quella di lavorare con Wheeldon a una nuova versione dello Schiaccianoci, una collaborazione che ora porterà al musical di Hugo Cabret. Non è cambiato però il processo creativo, il misto di gioia e difficoltà che porta con sé. Quando lavoravo al libro su Houdini, sulla sua tomba nel Queens trovai una placca di metallo con scritto Care. Penso fosse un messaggio: prenditi cura di quel che fai. Prenditi cura del futuro. Del resto, scrivere libri per bambini è questo, un atto di speranza nel futuro».