Corriere della Sera, 23 gennaio 2021
In morte di Cecilia Mangini
«Sono stata per tutta la vita una documentarista. Anche quando ho fatto la fotografa, sono andata in cerca di qualcosa di molto più profondo della verità, di assolutamente nascosto che solo le immagini possono rivelare». Il valore e l’importanza dei lavori di Cecilia Mangini, scomparsa l’altro ieri all’età di 93 anni (era nata il 31 luglio 1927 a Mola di Bari), sono riassunti in questa dichiarazione, cui va aggiunto il fatto di essere stata la prima donna italiana a conquistare un’importanza (e una stima) internazionale in un genere fino ad allora maschile.
Trasferitasi a sei anni a Firenze, la Mangini si avvicina al cinema prima attraverso le proiezioni del CineGuf poi, dopo la guerra, animando lei stessa il cineclub Controcampo, che le offrirà l’occasione per trasferirsi a Roma come organizzatrice della Federazione Italiana dei Circoli Cinematografici e poi scrivendo sulle pagine di Cinema Nuovo e di Cinema Sessanta. Attraversata da una forte passione civile, che la porta ad iscriversi al Partito Comunista, vede nei reportage per la rivista Rotosei e poi nel passaggio dalla fotografia alla macchina da presa la possibilità di intervenire direttamente nella vita politica italiana.
È lo spirito che informa Ignoti alla città (1958), spoglio ritratto di un gruppo di ragazzi di borgata romani, molto lontani dagli stereotipi dell’Italia che si incammina verso il Boom, come sottolinea il commento scritto da Pasolini. Sempre al poeta friulano sarà affidato il commento ai successivi Stendalì (Suonano ancora) e La canta delle marane: nel primo (1960) ambientato a Martano, nel Salento, la lezione di Ernesto De Martino si legge nelle scene di un gruppo di donne che piangono un defunto attraverso un preciso rituale, nel secondo (1962) è decisamente pasoliniano il ritratto di un gruppo di ragazzini di periferia che si bagnano in una pozza. Firma col marito Lino Del Fra e con Lino Micciché All’armi siam fascisti! (1962), documentario che ripercorre con rari materiali di repertorio, quasi tutti reperiti all’estero, il Ventennio littorio sottolineando le responsabilità della grande industria e della Chiesa nella sua ascesa.
Collabora alle sceneggiature e ai soggetti di altri film (La torta in cielo, La villeggiatura, Antonio Gramsci. I giorni del carcere) ma resta fedele al documentario, dirigendo tra l’altro Essere donne (1965), una delle prime indagini sulla condizione femminile in Italia che per le sue prese di posizione militante riceverà numerosi riconoscimenti all’estero ma non il nulla osta per la programmazione obbligatoria (che permetteva ai documentari di arrivare nei cinema) dal ministero del Turismo e dello Spettacolo.
Un ostracismo che non frenerà il suo impegno e la porterà per tutti gli anni Sessanta e Settanta a firmare altre opere sul tema della condizione operaia femminile (Brindisi ’65, La scelta, Domani vincerò, La briglia sul collo), prima di tornare con Lino Del Fra a girare la lunga inchiesta in tre puntate Comizi d’amore ’80 (1982) che affronta i temi della sessualità e dell’amore. Ultimo lavoro, il documentario In viaggio con Cecilia (2013) co-diretto da Mariangela Barbanente sul disastro ecologico che gli insediamenti industriali di Brindisi e Taranto avevano innescato in Puglia.