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 2021  gennaio 23 Sabato calendario

19QQAN40 Su "Dal mostro al principe" di Andrea Carandini e Paolo Carafa (Laterza)

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C’era una volta, in un tempo mitico della futura Roma, Caco «mostro a tre teste, sputafuoco e bandito di armenti, corrispondeva agli esseri del caos, come i Titani e i Ciclopi». Di fatto, il primo «capo» dell’area più significativa della futura Roma, ovvero la zona che oggi individuiamo come l’attuale Palatino. Figlio di Vulcano, viveva in una grotta sulle pendici del Germalus (la più piccola delle sommità del Palatino, quella che scende verso il Foro Boario e poi sul Tevere) e dominava col suo terrore anche sull’Aventino. Seguendo il complesso itinerario mitico-storico-geografico tracciato da Andrea Carandini e Paolo Carafa nel loro nuovo saggio Dal mostro al principe/ Alle origini di Roma (Editori Laterza) occorre partire da Caco (il mostro del titolo), dalle sue fauci infiammate e dalle sue abitudini cannibali, per capire come e perché Augusto (il principe) abbia deciso di realizzare il suo immenso palazzo-santuario (col tempio di Apollo) sul Palatino, inglobando simbolicamente, nel nome del nuovo potere, tutte le tracce fondative di quello che era diventato l’unico Impero del mondo conosciuto: dalle scale di Caco, al pianterreno, al Portico delle Danaidi, quadrato come quadrato era il solco tracciato da Romolo. Uno scrigno di simboli e di richiami essenziali per gestire il potere in un Impero che aveva bisogno di radici, di certezze fondative «miti-storiche», per usare un termine che ricorre nel volume e regala chiarezza a ciò che è a cavallo tra mito e storia. 
Il volume si struttura in tre interventi (con una ricca documentazione di tavole e di piante) dedicati al Germalus/Palatino. Il primo, di Andrea Carandini, riguarda l’approdo al Palazzo di Augusto partendo da Caco e Fauno, anzi ancora da prima, e passando per le capanne di Faustolo e Romolo. Mille e più anni di storia sedimentata e soprattutto, per l’autore, il senso dei «trent’anni dedicati a ricostruire tramite la critica delle fonti letterarie miti, leggende, sacralità e riti del Lazio e del sito di Roma, molto più antichi della loro registrazione nella scrittura letteraria». Poi Paolo Carafa, attuale titolare della cattedra di Archeologia all’università romana «Sapienza» che era stata di Carandini, analizza l’insieme del Germalus, anche con i suoi monumenti. Infine Mattia Ippoliti, coordinatore del grande scavo dell’Ateneo «Sapienza» sulle pendici settentrionali e meridionali del Palatino, entra nel dettaglio della Casa-santuario di Augusto. 
Spiega Carandini che il palazzo di Augusto riuniva tutti i simboli fondanti di Roma nei secoli che lo avevano preceduto: «Si trovava sopra l’area in cui si sarebbero celebrati i Palilia, sorta di proto-Comitium di Roma (almeno secondo Dionigi); vicino all’antrum e alle scalae del mostro Cacus; davanti alla capanna del capo-porcaro Faustulus di un rione del Septimontium e a quella del Rex e augur Romulus; accanto alla fossa e all’ara della fondazione della città; sopra la grande grotta del demone Fauno o Lupercal». Come aggiunge Carandini a voce, tutto questo «svela una straordinaria capacità di Roma di innovarsi però ancorandosi alla tradizione e riutilizzando le origini. Questo spiega la forza politico-culturale e la durata dell’Impero romano». Un viaggio, scrive Carandini, dal caos (Caco, per intenderci) alla civiltà (quella romana). Il contrario di quello che avviene nei nostri tempi «in cui l’oggi pare solo mirarsi in uno specchio, come Narciso».  
L’autore prende per mano il lettore e lo conduce da Alba, dove affondano le radici di Roma con la leggenda di Romolo e Remo, verso il vocabolo «Roma» rendendolo trasparente: «Non è da escludere che nei primordi la zona tra la radice Germalus e le paludi del Velabra, dove era l’approdo al fiume di Alba, potesse chiamarsi Ruma, dal seno/insenatura o ruma del Tevere noto anche come Rumon, dal fico della dea Rumina che al Lupercal si trovava, e dalla porta Romana che a partire da Romolo darà accesso al monte. Se così fosse, l’approdo al Germalus avrebbe dato alla urbs il nome Roma». 
C’è poi un passaggio iniziale del libro in cui Carandini (dopo aver svolto l’elogio dell’errore dello studioso, del ripensamento, della consapevolezza che il risultato della ricerca è «continuamente incompleto e quindi provvisorio» perché un metodo di lavoro intellettuale non deve mai essere «ridotto a un feticcio» e meno che mai un pensiero deve «diventare canone») rivendica la sua scelta di divulgatore, di raccontatore culturale capace di rivolgersi a un pubblico vasto e non solo ai «dotti», aggettivo che l’autore usa per indicare ironicamente una certa casta chiusa e autoreferenziale degli studiosi di archeologia: «La ricerca non può essere fine a sé stessa, né vale concludere la vita chiusi nell’accademia. Infatti lo studio necessita di una professionalità scientifica e storica che sappia anche estendersi a una politica culturale e a un’etica civile». 
Distribuire sapere rendendolo accessibile «giova alla consapevolezza e alla compattezza della società». In sostanza, sostiene l’autore, non è difficile trasmettere i frutti dello studio agli allievi, creare una scuola e un metodo (come dimostra la successione di Carafa sulla cattedra di Carandini, con la fertile continuità della Scuola archeologica romana e degli studi comuni, come questo): «Ma il cuore culturale ed etico-politico di un insegnamento è più difficile da trasmettere perché si nutre della libertà di pensiero, del coraggio etico e della voglia di raccontare storie verosimili avvincendo i lettori». Scelta che per Carandini è un’arma contro quella non-conoscenza del passato sempre più diffusa che diventa terreno ideale per fake news storico-culturali del passato ma soprattutto socio-politiche di oggi. Quindi meglio evadere dalla prigione dell’accademia: «La tentazione dell’ultra-specialismo e dell’ultra-tecnicismo sfocia nella sterilità, nella noia o nella evasione; raramente in un progetto che sia di rilevanza anche pubblica e quindi generale». Perché il «perbenismo accademico» rischia di produrre solo «eruditi accurati ma inutili al mondo». Al contrario, sostiene Carandini, offrire conoscenza anche con strumenti popolari diventa una scelta etica come possibile antidoto alla non conoscenza (cioè all’ignoranza) e ai suoi frutti, sempre più pericolosi e sempre più visibili.